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L'arcivescovo Accolla: "Usciamo dalle nostre chiese. Crisi di vocazione? Il problema è la credibilità di noi preti"

A tu per tu con l’arcivescovo Giovanni Accolla: quasi 5 anni di vescovado a Messina, il suo bilancio. La fede ai tempi del Covid, il dissesto delle casse della Curia, la crisi di vocazione, il Ponte, la benedizione alle coppie gay, i tanti Renzo Tramaglino che caratterizzano la politica italiana.

 

Seconda Pasqua ai tempi del Covid. Tredici mesi di una lunghissima Via Crucis. Nel buio come ci si orienta?

«Siamo ancora nel tunnel. Però non c'è il tappo dell’altra parte, prima o poi la luce si vedrà, di questo ne sono più che convinto. Servono segni di speranza da chi è protagonista: dai ricercatori a chi ci governa, dall’esperienza ecclesiale a quella dell’ultimo cittadino. Tutti possiamo dare il nostro contributo. Ritengo che sia ancora presto per fare previsioni, la normalizzazione richiederà tempo. Ma una cosa voglio dirla: se la normalizzazione dovesse raffigurarsi come un ritorno al passato non so se l’uomo avrebbe fatto passi in avanti. Io penso che tutte le esperienze, anche quelle negative debbano necessariamente diventare intelligenza del cuore. E non sto sbagliando nel dire intelligenza del cuore o sapienza del cuore perché la sapienza della mente tante volte ha creato anche mostri. Penso a chi ha ideato le camere a gas o le deportazioni: non erano certo uomini imbecilli. La testa l'avevano, la utilizzavano male. Ecco perché io parlo della sapienza del cuore. Oggi chi ci governa deve pensare innanzitutto alla salute ma anche un po' alla vita sociale e quindi all’economia che regge la vita sociale. Serve trovare un equilibrio. Ma ripeto: è importante che l'uomo sappia che se ciò che stiamo vivendo non diventa saggezza non c'è progresso».

Lo scorso anno l’immagine iconica di Papa Francesco, solo in una piazza San Pietro deserta. La Chiesa che si fa uomo, che torna a essere Cristo in croce con le sofferenze del mondo intero sulle spalle. Ci racconta la sua piazza San Pietro, la solitudine dell’arcivescovo di Messina nei momenti di grande sofferenza e davanti ai drammi del suo gregge.

«I disagi non sono stati pochi, nel mio ruolo ho fronteggiato le conseguenze dei provvedimenti: prima comunione sì, prima comunione no; cresima sì, cresima no. Tutta una serie di punti interrogativi a cui abbiamo dovuto dare risposte. Ma le cose belle della vita religiosa sono state rappresentate da una maggiore sensibilità nella carità e nella solidarietà. La gente in questo periodo è diventata più generosa, a cominciare come sempre dalla gente più umile. Circa la solitudine del Papa a piazza San Pietro ho una cosa da sottolineare: in quel momento la piazza era vuota ma era colmo il mondo di sguardi su di lui. Non voglio essere frainteso: ma come vorrei che le nostre chiese si svuotassero totalmente. Ma non per perdere clienti ma perché tutti quelli che viviamo una dimensione religiosa diventassimo tutti missionari e quindi vivessimo quella esortazione frutto del magistero della Chiesa. Vorrei le porte delle chiese aperte ma non per aspettare che la gente entri ma perché quelli che siamo dentro possiamo veramente uscire per portare la gioia dell'annuncio della morte e Risurrezione del nostro Signore. Dobbiamo cogliere il disagio della gente come opportunità e riprendere coscienza della missionarietà della vita della chiesa. Allora sarei contento se le nostre chiese si svuotassero».

A ottobre saranno cinque anni di vescovado a Messina. Monsignor Marra aveva scelto una postura “politica”, con messaggi costanti e frequenti alla classe politica e alla città sui temi d’attualità. Di monsignor La Piana ricordiamo l’intervista sulla cappa massonica che avvolge la città e la dura omelia in occasione dei funerali dell’alluvione di Giampilieri e Scaletta. Lei ha scelto forse una strada più spirituale. Ma che idea si è fatto di Messina e dei suoi politici?

«Mi fa una domanda a bruciapelo. Diciamo che i confronti sono sempre detestabili. Io penso che ognuno di noi porta la ricchezza che ha nel suo cuore. I miei predecessori entrambi sono stati dei pastori fedeli alla chiesa, interpretando i momenti nei quali hanno vissuto questo servizio con le condizioni socio economiche e sociopolitiche del tempo. Io sto vivendo questo momento che in due anni su cinque è stato segnato da questa forma di pandemia e con questo devo fare il conto. Sui politici dico che la tentazione narcisistica è sempre forte negli uomini, qualsiasi ambito occupino. Abbiamo bisogno continuo di resettare il nostro modo di relazionarci perché purtroppo oggi i tempi e i modi della comunicazione sono diversi. Ed esistono forze e presenze politiche emergenti che se non hanno saggezza rischiano di diventare un Renzo Tramaglino delle giornate di Milano. Cosa penso dei politici? Che tante volte ci sono forme di miopia e le traveggole che ci stanno davanti agli occhi sono un po' come le carote davanti agli asini: ti fanno fare il passo successivo senza capire qual è la strada da percorrere, da dove si è partiti e dove si vuole arrivare. Credo che tante volte siamo vittime del determinismo psichico azione-reazione e non riusciamo a guardare oltre».

Ma quella cappa massonica, quell’intrico di potere, di cui parlava La Piana, che impedisce a Messina di svilupparsi lei lo percepisce?

«Mi dicono che Messina abbia una realtà massonica molto forte ma ad onor del vero che cosa ci sia nel cuore di coloro che vivono dentro le sette massoniche io non lo so e sono certo che anche tanti di loro non ne hanno consapevolezza. E’ più una identità sociale, un desiderio mirato di condizionare la vita sociale».

Nell’ultimo periodo si è tornato a parlare del Ponte sullo Stretto come possibilità di sviluppo per una terra depressa come questa. Lei cosa pensa?

«Tutta la fascia ionica da un punto di vista orografico è ad alto rischio sismico: questo mi preoccupa. Io non ho conoscenze scientifiche in merito, quindi parlo un po' come l’uomo della strada, ma sono molto perplesso sulla edificazione di questo ponte per la gestione complessiva, sia presente che futura».

Lei è stato chiamato a Messina in un momento difficile per questa Chiesa. A che punto è l’opera di risanamento delle casse della Curia di Messina, in grande difficoltà negli anni passati?
«Il percorso di risanamento è lungo. Alcuni disastri sono stati generati da interventi di terzi e mi riferisco a imprevedibili impegni di spesa di cose non realizzate. E poi ci sono tutte le altre cose che sono radicate nel cuore dell’uomo: i passi lunghi si fanno quando una persona è alta: mai chiederò a una persona di 1.50 di allargare le gambe per camminare come posso farlo io che sono 1.90. Stiamo cercando di ottimizzare quanto più possibile forme di economia nella valorizzazione del patrimonio e nella valorizzazione delle risorse. Il modo migliore di assicurare il rischio dell’investimento non è la conservazione dei talenti. Ma quando si parla di saper affrontare il rischio dell’investimento si deve fare riferimento alla capacità produttiva non solo per fare profitti ma almeno per ricapitalizzare il valore nominale di ciò che è stato oggetto di investimento».

Parliamo delle divisioni interne in Curia e nel presbiterato ai tempi di La Piana. Tutto risolto?
«Realmente dobbiamo vivere con i piedi per terra. Ci sono state le dimissioni di monsignor La Piana e la diocesi è stata per circa un anno in balia a forme di amministrazione provvisoria. E questo naturalmente ha destabilizzato tutto. E questa destabilizzazione ha fatto aumentare senz'altro il criterio della autoreferenzialità. Naturalmente il lavoro è un processo lungo, “gutta cavat lapidem”. Bisogna utilizzare capacità decisionale e nello stesso tempo l’affabilità relazionale. Non sono miope so vedere le criticità ma non mi deprimo. Preferisco guardare bene e con entusiasmo a tutte le forze e le risorse che vengono dal mondo dei laici, dei presbiteri. Vedo la gioia di produrre insieme, di mettere insieme risorse, sollecitazioni, riflessioni di creare strumenti di pastoralità e di condivisione».

La crisi delle vocazioni. Crisi di numeri o di fede? Figlia dell’inverno demografico, dell’attuale cultura del provvisorio e del relativismo o di cos’altro?

«Tutti i meccanismi incidono. Se io ho un vaso pieno di olio e ci metto la mano dentro è chiaro che la mia mano non è diventata olio però si unge. Noi viviamo in un tempo di secolarizzazione ma bisogna chiedersi se il tempo della secolarizzazione ha trovato proprio cuori induriti oppure c'è un anelito di speranza, di forza, di fede. Nel cuore c'è un bisogno di Dio grande ma viviamo in un tempo secolarizzato che ci porta un po' verso la deriva dell'indifferenza religiosa. Umiltà, sobrietà, povertà sono gli strumenti per saperci mettere veramente nell'orto degli Ulivi accanto a Gesù non a dormire ma a pregare. Quando vengono meno le vocazioni non è un fatto di organizzazione logistica o di strategia pastorale. Il problema è la credibilità di noi sacerdoti. Dobbiamo chiederci se nel volto di noi sacerdoti traspare la gioia della nostra vocazione, la gioia del nostro servizio».

Domenica scorsa un parroco ligure ha protestato contro il Vaticano: “Se non posso benedire le coppie gay allora neppure le palme”. E un vescovo tedesco ha detto: “Lo scritto della Congregazione è una vergogna”. Lei cosa ne pensa?

«Il problema non è ciò che si esprime, ma ciò che si è coltivato. Bisogna rispettare tutti, bisogna rispettare le scelte di una coppia gay ma non dobbiamo farla diventare simbolo perché altrimenti diventiamo idolatri».

Ma perché non benedirla?

«Perché non è coerente con quello che il Signore ci ha chiesto. Ma questo significa che sono legittimato a umiliarla? Mai. Io non posso giudicare ma non posso mai confondere: “unicuique suum”, a ciascuno il suo. Ognuno secondo il suo cuore e la sua identità, con le proprie ricchezze. Io temo che tante volte chi si fa paladino di queste cose non rispetta la dignità di quelle coppie ma invece rischia di evidenziare un aspetto di mostruosità che tale non è. Io non so se quel prete pensava alle coppie gay o ha cercato un modo per emergere, per avere la ribalta. Interroghiamoci».

Torniamo alla sua terra. Gesualdo Bufalino scriveva: “Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell'angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. La Sicilia è un appezzamento di terreno staccato dalla terraferma, che è dunque per gli abitanti desiderio di fuga e voglia di restare insieme, tana e vizio. Per lei, siciliano di Siracusa e vescovo di Messina, la Sicilia cos’è?

«Dico che le contraddizioni stanno in tutti i posti. A me piace evocare una bella espressione di Papa Paolo Giovanni II: “Più vado al Sud più trovo calore”. Il nostro popolo ha delle ricchezze e delle intelligenze straordinarie. Guardate quante persone del Sud e della Sicilia occupano posti fondamentali. Penso al presidente della Repubblica, Mattarella, allo spessore della sua umanità radicata anche nella sua spiritualità e nella sua fede. Fede molto provata dall’uccisione di suo fratello. È forse diventato un indemoniato, un arrabbiato. Leggete i suoi discorsi, la sua saggezza. In un mondo in cui mancano gli statisti e siamo circondati da Renzo Tramaglino che gridano continuamente e pensano di diventare punti di attrazione con le volgarità e con le minacce. Pensate a lui e ai suoi richiami al senso di essere popolo. Lui è un siciliano».

Ad agosto saranno 70 anni. Ci consenta una battuta: cosa farà da grande mons. Accolla?

«Intanto spero che qualcuno mi regali una bella torta in modo da poter spegnere le candeline. Da grande? Non ho l’aspirazione a diventare grande... Nonostante i miei 190 cm spero di restare bambino e di restare spontaneo e sincero in tutte le mie espressioni. E spero di essere sempre attento ai più fragili. Dobbiamo imparare a vivere con tutti: con i politici stravaganti, con i preti infedeli, con i massoni, con le persone sagge, con i bambini. Ognuno di noi ha qualcosa da regalare agli altri, dobbiamo creare ponti tra le persone. Ognuno con la sua identità. Santa Pasqua a tutti».

 

 

 

 

 

 

 

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