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Storia di O'Tama, l'orientale che amò la Sicilia...e Messina

Dal Giappone a Palermo e anche a Messina, ritratta in macerie dopo il 1908

Ci sono vicende e personaggi che sembrano degni di un romanzo, anche se si tratta di realtà. E quella di O’Tama sembra “fiction” anche a distanza di tanto tempo, avvolta com’è in un alone di leggenda. Si tratta di una storia di amore e di arte, inserita nella grande Storia, quella della “scoperta” del Giappone da parte dell’Occidente dopo la riapertura delle frontiere, nel 1854.

Fino a quel momento, il Giappone era rimasto un luogo segreto e diverso: per religione, per costumi, per pensiero e anche per arte. Il “mondo fluttuante”, senza l’uso della prospettiva, cominciò a influenzare gli artisti europei (Van Gogh, per esempio), affascinati dal modo, altro e non realista, di raccontare la natura. E l’imperatore Meiji, dopo il 1870 avviò un vero processo di modernizzazione e di scambi culturali.

Di questa idea di scambio, e ancor più di fusione – di cuori anime colori e acquerelli – fu ambasciatrice nella Sicilia ottocentesca dei Florio una ragazza nata a Tokyo nel 1861: Tayo Kiyohara, detta O’Tama, ovvero “sfera di cristallo lucente”, figlia del cerimoniere di un tempio buddista. Un’artista di grande valore che, lontanissima da casa, seppe diventare protagonista anche nella vita sociale: una donna che lavorava e produceva, qualità allora guardata con sospetto. Ed è anche per questo aspetto sociale che lo scorso anno è stata ricordata in due importanti mostre: “O’Tama. Migrazione di stili”, organizzata dalla Fondazione Federico II nel Palazzo Reale di Palermo, e “Progetto Oriente”, nel Mudec di Milano, dove un’intera sezione era dedicata alla sua vicenda siciliana.

Il primo interrogativo è: come è potuto accadere che a ventun anni questa giovane, non sposata, abbia seguito a Palermo – nell’altra parte del mondo – il suo maestro e compagno, lo scultore Vincenzo Ragusa, di vent’anni più grande? La storia parte da lontano.

Ragusa (1841 – 1927), artista di valore, irrequieto ed estroso, si era trasferito a Milano per cercare fortuna. Lì, nel 1875, partecipò a un concorso dell’Accademia di Brera, bandito per individuare tre docenti italiani per la scuola d’arte di Tokyo. Fu scelto: un’esperienza che durò fino al 1882. Intanto O’Tama già a 11 anni aveva cominciato a studiare la pittura tradizionale dell’Ukiyo-e, dimostrando grande talento. Ma ecco che irrompe il “romanzo”: fra aneddotica e verità si racconta che un giorno del 1878 Ragusa, mentre faceva una passeggiata a cavallo, fu colpito dalla bellezza di una ragazza che dipingeva all’aperto. Era la diciassettenne O’Tama e galeotta fu la pittura: Ragusa, innamorato, cercò di insegnare a quella ragazza la tecnica della pittura occidentale, troppo realista però per essere subito apprezzata da lei. Pare che lo scultore avesse riempito il giardino di casa Kiyohara di piante e fiori d’ogni genere, di cigni, anatre e pesci d’acqua dolce, tutti soggetti ideali per portare la giovane a un’evoluzione del suo stile che a poco a poco divenne una specie di sincretismo artistico di Oriente e Occidente, attuato in pieno nella cosiddetta “collezione dipinta”, in cui O’Tama disegnò con precisione fotografica, eppure ricca di sentimenti, tutti gli oggetti – oltre 4mila – che con amore anche antropologico Ragusa stava raccogliendo (poi portati a Palermo in 123 casse).

Non solo, O’Tama fu anche la prima donna nipponica a posare per un occidentale. Quando Ragusa decise di fondare il Museo-Scuola giapponese a Palermo, fu naturale per O’Tama seguirlo, e il padre fu convinto perché con lei partirono la sorella maggiore Chiyo, ricamatrice, e il cognato Einosuke, maestro di lacche. Era il 1882. La scuola subì alti e bassi e lo scultore dovette rinunciare alla collaborazione di Chiyo e suo marito, e più tardi dovette vendere la sua collezione giapponese al Museo Pigorini di Roma, dove si trova tuttora negli scantinati nonostante sia la più importante d’Italia.

La sua eredità continua nel Liceo artistico “Vincenzo Ragusa e O’Tama Kiyohara”, che è anche un museo perché custodisce i 46 acquarelli restaurati (grazie alla maestria della messinese Gloria Bonanno) in occasione della mostra palermitana. Essi suggeriscono, come scrive Antonio Giannusa, che «l'opera di O'Tama a Tokyo non era solo puro esercizio tecnico ma aveva un ruolo fondamentale per poter trasferire, in sinergia con il progetto di Vincenzo, molti aspetti della cultura giapponese».

La vita di O’Tama, nei 51 anni trascorsi a Palermo, supera la fantasia e divenne davvero un romanzo quando nel 1927 due quotidiani giapponesi la raccontarono a puntate. Nel 1889 sposò Ragusa con rito cattolico dopo essere stata battezzata col nome di Eleonora. Senza perdere il suo retroterra culturale, s’inserì con il suo lavoro nella società palermitana (sua madrina fu la principessa Rosa Mastrogiovanni Tasca).

Insegnò pittura a tante figlie di buona famiglia e, ricorda la storica dell’arte Maria Antonietta Spadaro (tra gli ideatori della mostra palermitana), «fu un’artista eclettica a tutto campo: si espresse con la stessa abilità in tecniche quali olio su tela, acquerello e pastello; rimangono anche suoi delicati disegni a matita e persino dipinti parietali (oggi ammirabili in due ville di Palermo, nda); si dedicò, oltre che alla pittura da cavalletto, anche all’arte applicata (paraventi e ventagli, nda)». O’Tama non era solo artista: col marito ebbe un ruolo importante nel 1901 nell’organizzazione dell’Esposizione nazionale, per la prima volta in Sicilia (cui partecipò con ben tre opere, come i più famosi italiani); nel 1888 fu in prima linea per dare soccorso durante l’epidemia di colera e nel 1908 accorse a Messina (mirabili tre suoi acquerelli, testimonianza delle rovine, ospitati nella Galleria comunale di arte moderna, al Palacultura) e ospitò generosamente alcuni terremotati rimasti senza casa.

Quando nel 1927 morì Ragusa, era talmente integrata che non pensò di lasciare Palermo, pare che parlasse l’italiano meglio del giapponese.
Ma le vite-romanzo sono ricche di colpi di scena. Diventata nel frattempo famosissima in Giappone dopo la pubblicazione della sua biografia-romanzo, la famiglia d’origine decise che doveva tornare in patria e a questo scopo mandò a Palermo nel 1931 la pronipote Hetsue, appena 17 anni, che non dichiarò subito la sua “missione”. La zia aveva capito e fece di tutto per farla innamorare della Sicilia. Forse ci riuscì, ma Hetsue non poteva permettersi un fallimento del suo compito (inaccettabile per una giapponese) e arrivò a minacciare il suicidio se O’Tama non fosse ripartita con lei. Cosa che avvenne nel 1933. A Tokyo fu circondata da affetto e stima fino alla morte, nel 1939. Fine nella storia? No. La pittrice aveva disposto che le sue ceneri fossero divise fra il tempio paterno e la tomba del marito a Palermo. Le ceneri sono state portate in Sicilia solo nel 1985, proprio da Hetsue, ormai anziana. Sulla sepoltura si legge: «Le spoglie di O’Tama Kiyohara / venute dal lontano Giappone / si sono ricongiunte a quelle dell’amato sposo».

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