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Su RaiTre il film di Salvatores con la famiglia messinese. E c'è anche la Gazzetta

Protagonista del film del premio Oscar il messinese Bruno Luciano, con la moglie Monika, incinta del secondo figlio Elia, e la piccola Beatrice: ha documentato le lunghe giornate del lockdown, soli come tutti, ma uniti come mai. Conquistando il regista.

C’è un bel simbolo di speranza, tra le immagini di “Fuori era primavera”, il film collettivo di Gabriele Salvatores che, dopo il grande successo alla Festa del Cinema di Roma e dello streaming su RaiPlay, è andato in onda ieri sera in prima visione su Rai3, al termine della puntata speciale di “Le parole dell’anno” all’interno della quale il regista Gabriele Salvatores ha dialogato con Massimo Gramellini della situazione attuale introducendo la visione del film.

La speranza ha i volti di Bruno e Monika Luciano, e dei loro figli: Beatrice e il piccolissimo Elia. Li vediamo a casa loro, in riva allo Stretto, a guardare in tv quello storico momento in cui venne annunciata quella cosa stranissima, il “lockdown”, e poi li seguiamo, lui al lavoro alla Gazzetta del Sud, dove è tecnico informatico, lei alle prese con l’ultima parte della gravidanza. E la sua pancia, sulla quale a un certo punto per gioco scrivono una “autocertificazione” per Elia che deve nascere.
Questa famiglia è un fil rouge di speranza nel cuore del film, prodotto da Indiana Production con Rai Cinema, intimo racconto degli italiani in lockdown: dalle meravigliose piazze italiane vuote, agli eroi in prima linea nelle corsie degli ospedali, ai balconi in festa, alle riprese domestiche. Una testimonianza collettiva filtrata attraverso la regia e la visione di un grande artista che, con un vero e proprio film documentario, restituisce alla nostra futura memoria una fotografia autentica e completa dell’Italia di oggi.
«Ho partecipato – ci racconta Bruno – perché nel 2013 ero rimasto colpito da “Italy in a Day”, primo film collettivo di Salvatores, su una giornata tipo italiana documentata da video raccolti in tutto il Paese. Allora non ci ero riuscito, e mi era rimasto questo desiderio. Quando a inizio lockdown ho visto lo spot di “appello” ho risposto. Anche se allora speravamo di rivedere tutto in una condizione di normalità, cosa che poi non è accaduta. Questa volta, ho detto a Monika, ci dobbiamo essere anche noi. Dopo il terzo video che ho mandato sono stato contattato dallo staff. Erano stati colpiti piacevolmente dalla nostra famiglia e volevano provare questo percorso assieme. Un percorso che è durato più di 3 mesi».
Nessuna regola, solo spontaneità: «Hai carta bianca, fai quello che ti senti di fare», mi hanno detto. Io documentavo le nostre giornate». Ma le cose più semplici diventano le più forti e poetiche, nell’Italia angosciata dal lockdown. «L'abbiamo vissuta in modo strano – ricorda Bruno – . Ovviamente eravamo soli, i genitori di Monika sono in Slovacchia. E paradossalmente, per me è stato un modo per passare molto più tempo con la mia famiglia, con mia figlia. Io ho conosciuto aspetti della mia famiglia che non conoscevo. Un giorno dirò a mio figlio che non mi andava di fargli foto scontate, ma una cosa più particolare: di farlo comparire nel film di Salvatores...».
«Spero che chi vedrà il film – ha detto Salvatores – possa sentire quel senso di solidarietà e vicinanza che ci ha accompagnati nel primo lockdown, di cui forse abbiamo ancora più bisogno in questi giorni e settimane di feste così diverse da quelle a cui siamo abituati. Con la speranza che la prossima primavera possa essere un momento più sereno per tutti».
Intanto, la primavera di Monika, Bruno, Bea ed Elia è già arrivata.

Fuori era Primavera

«All’inizio avevamo un approccio più classico, quasi documentaristico – racconta oggi Salvatores – pur avendo chiesto alla prima squadra di visionatori, una ventina, di individuare dei nuclei narrativi e dei personaggi a loro modo protagonisti. Poi ci siamo resi conto che il tutto rischiava di prendere un taglio televisivo che non poteva competere col flusso delle notizie quotidiane e allora abbiamo scelto la strada delle emozioni, di un sentire diffuso in cui il dolore e la speranza si fondono nelle parole e nei gesti che le persone ci avevano affidato con generosità».
Il film si apre su una lunga serie di riprese della natura incontaminata, delle specie animali che si sovrappongono ai riti collettivi della specie umana. Finché un pipistrello vola in cielo e tutto comincia... «Non sarò mai un negazionista – precisa il regista – : so bene che il virus esiste, l’ho provato in prima persona e credo alla ricostruzione del suo passaggio dall’animale all’uomo. Ma è altrettanto vero, come dice uno dei personaggi del film, che per la natura anche noi siamo una sorta di virus malefico. Abbiamo sconciato la Terra e siamo responsabili del degrado per cui il pianeta boccheggia. Abbiamo favorito questa pandemia coi nostri comportamenti e oggi la considero un segnale d’allarme a cui dovremmo prestare attenzione».

Nel film c’è molta solidarietà, voglia di comunità e di mutuo soccorso, tutte cose che hanno caratterizzato la nostra primavera e che oggi sembrano scolorite. «Oggi al sentimento di comunità – risponde il regista – si è sostituita la paura, la rabbia, la confusione. Purtroppo noi italiani non abbiamo una storia di comunità; possiamo essere straordinari, inventivi, geniali, ma facciamo fatica a remare tutti nella stessa direzione. È un capitale che abbiamo sprecato e me ne accorgo anche nei miei comportamenti che sono cambiati dopo 50 giorni di isolamento da solo a Milano. Sono stato in fondo fortunato, ho avuto il virus in forma leggera, ma in casa ho dovuto reimparare quei gesti quotidiani da cui rifuggo da sempre. In fondo faccio il cinema anche per avere ogni volta una buona ragione per evadere dalla routine e costruirmi un mondo diverso. Voglio dire grazie a un medico, Raffaele Bruno del San Matteo di Pavia, che mi ha seguito a distanza, ha saputo trovare le parole giuste, mi ha confermato quanto il nostro servizio sanitario sia un’eccellenza e come vi lavorino persone straordinarie. Molte volte in questo periodo terribile proprio medici e infermieri sono stati i nostri veri “padri”, persone capaci di esserci, di aiutare, di parlare rischiando per primi».
C’è una sorta di filo rosso nel film, un rider che attraversa una Milano notturna e vuota, quasi irriconoscibile, e scandisce l’evoluzione del racconto, fino a un’alba incerta. Richiama una scena simile di «Happy Family»: «In realtà è uno di quei casi – sorride Salvatores – in cui ti accorgi a cose fatte che il tuo sguardo si è sovrapposto alla realtà. Ma è vero che fin dal nome e dal mestiere, rider, corridore solitario, quel ragazzo ci ha spinti nella direzione giusta. Così come il padre di famiglia che insieme ai suoi lascia tutto e si rifugia a Lampedusa, dove la natura appare incontaminata. Spetta a lui l’ultima inquadratura del film: una barchetta in mezzo al mare. Non sappiamo dove andrà, ma tutto intorno c’è un mare bellissimo, inviolato».
Il regista ha voluto firmarlo come un’opera collettiva: «Intanto è la realtà, perché noi abbiamo invitato chi voleva a darsi attraverso i propri filmati e su questi abbiamo lavorato con la sola eccezione delle parole dei medici che avevano altro a cui pensare e che abbiamo disturbato noi nei pochi minuti di pausa, facendoci accompagnare con pudore in quelle corsie del dolore che non vediamo mai. Poi c’è il mio retaggio di uomo di teatro degli anni 70, quando al Teatro dell’Elfo non firmavamo gli spettacoli singolarmente, sentendoli frutto di un lavoro collettivo. Mi è piaciuto respirare quella stessa atmosfera, anche se alla fine uno sguardo soggettivo si impone».
Il rimando al lavoro del Salvatores di oggi è quasi naturale, visto che presto si vedrà, al cinema, la sua nuova opera, una rilettura dei «Comedians» di Trevor Griffiths.

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