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Le radici della mafia a Messina, storia di una sottovalutazione: una serie di vicende criminali nel saggio di Rossella Merlino

Palazzo Piacentini, tribunale di Messina, in una foto degli anni Trenta

Che a Messina la mafia sia stata per troppo tempo sottovalutata e poco studiata ha fatto comodo a molti esponenti di quella “zona grigia” fatta di politici, mediatori e professionisti collusi, che facevano molti affari sporchi e organizzavano carriere.

E a questo quadro di sottovalutazione ha purtroppo contribuito una visione palermocentrica di un fenomeno criminale che invece, sin dagli anni 60 del secolo scorso, per restare al contemporaneo, si è progressivamente “strutturato” tra la città dello Stretto e la provincia, lungo le dorsali tirrenico-nebroidea e jonica, rinsaldando progressivamente legami solidi con le aree di Palermo e Catania, e poi con la vicina ’ndrangheta.

C’è stato poi un deficit di studi strutturali sulle origini del fenomeno “maffioso” a Messina considerando il periodo pre e post unitario dalle nostre parti, per comprenderne la nascita e l’evoluzione. Un deficit che adesso viene colmato da un saggio, molto interessante, scritto dalla prof. Rossella Merlino, e che reca la prefazione dello storico dell’Università di Messina Luigi Chiara, il quale conosce molto bene le dinamiche mafiose della nostra provincia, e compie un’analisi lucidissima sul tema nella sua prefazione.

Rossella Merlino ha svolto attività di ricerca e didattica presso università britanniche e italiane su temi relativi alla criminalità organizzata. È associate editor di Modern Italy (Cambridge University Press) e collabora, in qualità di Msca-If Alumna, con la cattedra di Storia contemporanea dell’Università degli Studi di Messina. A lei abbiamo rivolto alcune domande sul suo ultimo lavoro, che s’intitola “La mafia prima della mafia.Il caso di Messina”, pubblicato per la collana di Studi storici da Carocci Editore.

Per prima cosa le chiedo, come nasce questo libro?

«È frutto di un progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito delle azioni Marie Skłodowska Curie e finalizzato ad esaminare tratti e modus operandi del fenomeno mafioso in una provincia, quella di Messina, a lungo trascurata dalla letteratura scientifica in materia di mafia. Al di là delle dinamiche che attengono più strettamente alla sfera criminale, la ricerca, che ho coordinato presso il dipartimento di Scienze politiche e giuridiche dell’Università di Messina con la mentorship del professore Luigi Chiara, si è concentrata sui meccanismi con cui la realtà criminale nella provincia di Messina storicamente interagisce con le specificità politiche ed economiche del territorio, e con le rappresentazioni e i discorsi che nel tempo hanno contribuito a veicolare un’immagine della città per molti versi rassicurante».

E quale contesto emerge dal suo saggio?

«“Messina è una provincia tranquilla”, si è sempre ritenuto, sin da quando la questione mafiosa si affaccia sulla scena politica nazionale all’indomani dell’Unità d’Italia. Già allora, ai rapporti di questori, magistrati e prefetti che denunciano la presenza di un sistema criminale ben inserito nella vivace economia cittadina e in quella delle campagne circostanti, si oppongono le vigorose testimonianze di un’élite locale che insiste invece sulla tranquillità della città di Messina e delle province orientali della Sicilia. Al netto di questi dati discordanti, si è deciso di indagare uno spazio diverso da quello palermitano, da sempre al centro del dibattito storiografico sulla mafia, sia sotto il versante delle dinamiche economiche e sociali che della lotta politica, a partire da una prospettiva storica».

E come lo avete fatto?

«Incrociando fonti archivistiche in gran parte inedite, sebbene a tratti lacunose, il volume ricostruisce una serie di vicende criminali che interessano Messina nel primo quindicennio postunitario e che ruotano attorno alla Società degli Accoltellatori e degli Sparatori, alla banda Cucinotta, alle gangs di falsari messinesi di New York, all’omicidio dell’ispettore finanziario Vittorio Manfroni. Ad emergere, con una certa evidenza, è una forma di affarismo criminale che sfrutta le opportunità di profitto offerte dalla dinamica economia cittadina e da quella delle campagne circostanti, dalla vicinanza al porto e dai vantaggi del porto franco, che gode della protezione di autorità e notabili, che predilige attività redditizie e a basso rischio come il contrabbando, ma che non esita a usare la violenza o a minacciarla se le circostanze lo richiedono; un sistema criminale le cui attività, già tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, travalicano i confini isolani per giungere sino a quelli statunitensi. Sono altresì rinvenibili alcune modalità di azione attraverso le quali storicamente si articola il controllo della mafia sul territorio: un sistema estorsivo-protettivo capillare; l’assunzione, a tratti, del volto di opposizione politica al governo, a tratti, di quello della polizia; l’estensione del controllo sulla dogana e sulla pubblica amministrazione. È una maffia, la descrivono i magistrati isolani, in grado di surrogare il governo e i suoi diritti, vale a dire di esercitare quelle funzioni di protezione e uso dell’autorità di norma riservate alle istituzioni».

Ci sono anche pagine dedicate all’atteggiamento della cosiddetta società civile?

«Sì, il volume si sofferma sul dibattito pubblico intorno alla criminalità messinese, così come emerge dai processi per associazione di malfattori, dalla stampa coeva, dalle discussioni alla Camera, in particolare quella a margine della proposta di legge per l’applicazione di provvedimenti di Pubblica Sicurezza nel 1875, e dalle celebri inchieste parlamentari degli anni Settanta dell’Ottocento. È all’interno di queste “arene di azione e significato” che il discorso sulla mafia, e quella di Messina, prende forma, intrecciandosi con il più articolato scenario di lotta politica, particolarmente accesa nella città dello Stretto, tra moderati e repubblicani, e di gestione dell’ordine pubblico a livello nazionale. Si tratta, in sostanza, di un discorso che accompagna le “mafia” intesa in termini di fenomeno criminale stricto sensu, ovvero con una sua struttura, reti relazionali, modalità operative finalizzate al controllo del territorio, un rito di affiliazione e un giuramento solenne a ufficializzarlo, e che non può essere compreso se non nel concreto momento storico in cui si svolge. È la mafia prima della mafia, che dà il titolo a questo volume».

Ci parli invece dell’impostazione del saggio e dell’approccio che ha adoperato per vagliare tutta la gran mole di materiale storico...

«La ricerca che sottende questo volume ha utilizzato un approccio che dal punto di vista metodologico accoglie le indicazioni più recenti della riflessione sociologica e storica sul tema e che ha guardato non solo ai singoli casi criminali, ma all’articolarsi, entro un determinato contesto storico, del discorso pubblico sulla mafia, soffermandosi su chi questo discorso lo ha prodotto, gli interessi sottesi e le modalità di produzione. Per farlo, si è avvalsa di fonti giornalistiche e giudiziarie, rapporti governativi e di polizia, trascrizioni di dibattiti parlamentari, audizioni di commissioni d’inchiesta. Sono queste fonti utili a mettere in primo piano le testimonianze degli attori, inquisiti e inquirenti, coinvolti in prima persona nei fatti contestati, ma anche a fare emergere la voce di vittime e familiari delle vittime, uomini e donne, testimoni dal lato dell’accusa e della difesa, che danno uno spaccato straordinario delle dinamiche familiari dell’epoca, del ruolo delle donne, delle relazioni che legano gli imputati a notabili e a figure di spicco dell’élite politica messinese e di quella intellettuale. Parimenti illuminanti sono gli interventi dei deputati alla Camera, le audizioni della Giunta parlamentare d’inchiesta, le interviste annotate sul diario di viaggio che Leopoldo Franchetti porta con sé durante la sua indagine privata in Sicilia, le fonti di stampa locali e nazionali, da cui traspaiono interessi, giudizi e pregiudizi, posizioni politiche, ideologie, esperienze che sono radicate nell’orizzonte di senso di chi parla, e dalle quali non si può prescindere per comprendere il legame che intercorre da sempre tra il fenomeno mafioso e le sue rappresentazioni. È questo il presupposto da cui muove l’analisi. Il fenomeno mafioso, in generale, non è comprensibile nella sua complessità se non a partire dalle relazioni di potere, dai discorsi, e dalle trame di interessi che nei rapporti con l’ambiente esterno si dispiegano. Altrimenti, difficilmente si spiegherebbe la persistenza delle mafie nel tempo e la loro diffusione nello spazio».

Che “fotografia storica” di Messina emerge quindi in questo lavoro?

«In questo senso, l’analisi del contesto di Messina offre un ulteriore punto di osservazione per spiegare il modo in cui, il fenomeno mafioso e la sua rappresentazione si sono modellati su istanze sociali e istituzionali, sedimentatosi nel discorso pubblico con una pluralità di significati destinata a perdurare per oltre un secolo. “Tranquilla” si diceva allora della provincia di Messina, “babba” si dice oggi. Ma, come si legge nella relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle mafie del 2006, «l’immagine di città indolente, sonnolenta, e in definitiva a-mafiosa, per lungo tempo assegnata a Messina ed estesa all'intera provincia, è un falso storico… funzionale a occultare il radicamento del fenomeno mafioso che qui si sviluppò in modo tanto massiccio quanto clamorosamente incontrastato».

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