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La tragica morte di Luca Serianni: "Amava e proteggeva l’italiano"

La missione di un’intera vita. Perché è «esercizio di responsabilità e libertà salvare le parole dall’impoverimento e dalla banalizzazione»

Luca Serianni

Al sentimento della lingua, Luca Serianni, illustre linguista, filologo, dantista, professore ordinario emerito di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, aveva dedicato tutta la vita. È morto ieri, a 74 anni, a pochi giorni dall’incidente stradale, avvenuto a Ostia, in cui aveva riportato gravissime lesioni: un’auto lo aveva travolto mentre attraversava, sulle strisce, la strada.
«Un esercizio di responsabilità e libertà salvare le parole dall’impoverimento e dalla banalizzazione – diceva Serianni – , mantenere accesa la fiaccola della didattica dell’italiano per tutelare la nostra madre lingua, con la quale si esprimono le discipline umanistiche, quelle scientifiche e la cultura tutta, renderla strumento di coesione, di conoscenza e di ricchezza, per sviluppare attraverso la comprensione della parola il senso critico dei giovani». Una voce, la sua, che si rivolgeva con pacatezza alle persone tutte, e che si è spenta a Ostia, dove abitava e aveva iniziato a frequentare da allievo e poi da docente il liceo classico “Anco Marzio”, lì dove godeva della essenza del mare e dove lo scorso 18 d’un luglio feroce la comare secca pasoliniana lo aspettava a tradimento.
Quando muore un linguista, come quando muore un poeta, perdiamo pezzi di noi stessi e restiamo smarriti, deprivati di coloro che sono i custodi della grande bellezza dell’italiano. Lo avevo conosciuto al Salone del Libro di Torino, edizione 2018, dove con altri due illustri linguisti, Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, aveva conversato sulla necessità che la lingua stia al passo con i tempi e che però se ne salvi la complessità. La lingua non è così geometrica come si potrebbe pensare, ha sempre sostenuto il professor Sabatini. Dunque, bisogna evitare la palude della genericità nella quale gli italiani stanno affondando e salvare la complessità del lessico e della grammatica con le sue sfumature concettuali e sintattiche. Ne era convinto Serianni, che ha combattuto la deriva della semplificazione, anglismi compresi, ché in tal caso non si tratta di non stare al passo con l’evoluzione linguistica, ma di dimenticare come si dice in italiano quella parola che usiamo in inglese (era contrario alla sostituzione totale dell’italiano con l’inglese, come avviene in certe università italiane, o ai vari B2 richiesti nelle scuole per insegnare italiano, storia, latino, perché inevitabilmente si tratta di esprimere argomenti a livello elementare e ricadere nella banalizzazione).
«La lingua – diceva – continua a essere complessa negli ambiti che si sottraggono alla quotidianità, cioè nell'italiano scritto nelle sue varie forme, dall'editoriale di un giornale, al referto di un medico, alla sentenza di un giudice. È una complessità che si nota a tutti i livelli, dalla sintassi, a forte indice di subordinazione (linguaggio giuridico), al lessico specialistico (diritto e medicina), al lessico non banale e all'uso ironico, quindi dotto e consapevole, del linguaggio (editoriale)».
Tornando al ricordo torinese, mi avvicinai a quell’autorevole trio e mentre salutavo i professori Sabatini e Coletti, mi presentai al professor Serianni. Così, ricordandogli il comune amico messinese, il linguista Carmelo Scavuzzo, lo invitai senza indugio a venire a Messina per parlare di “italiano” con i giovani del liceo classico “La Farina”, dove insegnavo. Disse immediatamente di sì e mi diede, prima ancora che glieli domandassi, i suoi recapiti, proponendo un «tu» reciproco da me accolto con gioia. Naturalmente, come aveva promesso, venne, anzi ritornò a Messina, dove era stato dal 1976/77 al 1979/80 giovane professore “incaricato”.
Alla bella lingua d’Italia, ai suoi colori e alla sua nobile storia e all’esame di maturità (un rito di passaggio necessario, sosteneva) dedicò due incontri, l’8 e il 9 aprile 2019 nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università e nel Salone delle Bandiere del Comune (e questo giornale ne diede ampiamente conto, con un’intervista firmata da chi scrive).
«L’italiano non è solo lingua, è anche letteratura naturalmente – diceva Serianni – ma è qualcosa di diverso e di più: riguarda il modo in cui i vari saperi e le varie scienze vengono veicolati e proposti agli studenti. Io credo in una scuola che abbia il suo centro nella formazione dell’individuo». E aggiungeva, arrivando al nocciolo della lingua che deve essere coerente («la coerenza – ripeteva – è un requisito fondamentale che vale per tutti i testi, anche per quello parlato. Quando svolgiamo un discorso, anche banale, siamo coerenti»), che «la padronanza della lingua materna è un requisito tipicamente trasversale che riguarda la totalità degli studenti. Coloro che frequentano scuole tecniche e professionali rappresentano quasi la metà del totale e tutti devono essere in grado di esprimersi correttamente e di capire fino in fondo un testo scritto in italiano».
Spiegò la necessità di saper usare e riconoscere i connettivi e la punteggiatura (se in un testo c’è «dunque» e «infatti» o ci sono «due punti» o «punto e virgola» c’è un motivo), sia nell’organizzazione testuale di un testo proprio sia in un documento come in un giornale. Sconoscendone l’uso (pensava pure al popolo del «piuttosto che» usato, ahinoi, come disgiuntivo) si rischia che quel testo, e di conseguenza il pensiero, risultino opachi. Ed esortava i giovani (e non solo) a leggere testi saggistici (che non sono esclusiva del lettore “colto”) e a non dimenticare il dialetto che non minaccia certo di sopraffare l’“italiano standard”, anzi«possedere un codice espressivo in più arricchisce le possibilità linguistiche di ciascuno di noi».
Quanto ai suoi studi, essi hanno spaziato dal Medioevo al Novecento, dalla lingua letteraria ai linguaggi settoriali (in particolare, la lingua della medicina), dalla lessicografia del Settecento agli espressionisti, alla grammatica. Allievo del grande linguista Arrigo Castellani, Serianni insieme alla docenza per circa quarant’anni, sino al 2017, alla Sapienza, è stato accademico della Crusca, dei Lincei e dell’Arcadia, direttore degli Studi linguistici italiani e degli Studi di lessicografia italiana, vicepresidente della Società Dante Alighieri.
Autore di una “Grammatica dell’italiano” più volte ripubblicata, curatore con Maurizio Trifone del Dizionario Devoto-Oli, ha riflettuto e scritto sullo stato della lingua italiana (tra i suoi testi «Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica», «L’ora d’Italiano. Scuola e materie umanistiche»; «Leggere, scrivere, argomentare») e tra gli ultimi «Il sentimento della lingua. Conversazione con Giuseppe Antonelli», «L’italiano. Parlare, scrivere, digitare», «Il verso giusto. 100 poesie italiane», «Le mille lingue di Roma» e «Parola di Dante», un accurato studio filologico per il quale lo avevo interpellato per questa pagina nel 700° anniversario della morte del Poeta e di cui, come mi aveva assicurato nell’invito rivoltogli qualche mese fa, sarebbe tornato a parlarne con piacere a Messina in una data da concordare…

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