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Il convegno internazionale a Messina: due giorni di studi per approfondire il fenomeno mafie

Nei giorni 27 e 28 settembre si terrà nell’aula magna dell’Università di Messina il convegno di studi internazionale “Mafie tra continuità e mutamento: analisi, esperienze, narrative”. L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto di ricerca MessCa: “Mafia-type organised crime in the Province of Messina”, di cui è responsabile scientifico la dott. Rossella Merlino della Bangor University, sotto la supervisione del prof. Luigi Chiara presso il Dipartimento di Scienze politiche e giuridiche del nostro ateneo, e finanziato della European Research Executive Agency (REA) della Commissione Europea. Dopo i saluti del rettore Salvatore Cuzzocrea e del direttore del Dipartimento, prof. Mario Pio Calogero, introdurrà i lavori il prof. Luigi Chiara. Al convegno interverranno magistrati, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti e studiosi provenienti da diversi atenei italiani e stranieri.

Prof. Luigi Chiara, si chiude un percorso di conoscenza molto intenso sulle mafie, cosa rappresenta questa due giorni di studi come atto finale? E soprattutto cosa viene fuori dopo questo percorso?
«Il convegno vuol promuovere un momento di confronto interdisciplinare tra studiosi, esperti e magistrati. Le questioni sul tappeto, nei due giorni di interventi previsti, sono quelle che attengono alla mutevole forma che le mafie hanno assunto nel corso degli anni e ai modi, altrettanto mutevoli, con cui esse sono state raccontate e percepite. Il tema che a mio modo rimane centrale, e ancora oggi poco indagato negli studi, è proprio quello che attiene alla percezione che la società e le istituzioni pubbliche hanno avuto, ed hanno, del fenomeno. Ciò, io credo, abbia condizionato sia le analisi, sia gli stessi rimedi da adottare».

La mafia messinese è stata sempre poco studiata dal punto di vista della pubblicistica universitaria, secondo lei perché?
«Il concentrarsi degli studi, ma anche delle inchieste e della pubblicistica coeva, sulle forme organizzative, sui modi dell’affiliazione e sull’area del palermitano, o con maggior precisione della Sicilia occidentale, credo abbia condizionato l’analisi più approfondita di alcuni contesti, dove il fenomeno, era percepito, per esempio come nel messinese, e narrato, come marginale».

Nella rappresentazione del fenomeno ci sono più piani, lei nota una “disattenzione” eccessiva oggi su questi temi?
«Al netto delle collusioni tra mafie e politica, io credo che la questione più importante sia oggi quella di stabilire una linea di demarcazione netta tra ciò che è legale e ciò che è illegale, tra ciò che è possibile fare e ciò che non è possibile fare. Ma questa è una questione che attiene soprattutto alla dimensione culturale e civile. Vi è poi anche da evidenziare come la propensione, storicamente consolidata, della politica italiana ad intervenire nelle diverse questioni con provvedimenti di tipo emergenziale non abbia di certo incoraggiato questa separazione».

La società civile messinese è sorda a questi fenomeni o ci sono prese di coscienza solo in determinati settori? Anche a Messina c’è troppa “voglia” di mafia?
«Non credo sia così. Credo che Messina, come altri contesti urbani, soprattutto del meridione, sconti un’impostazione culturale che più o meno suona così: quando vi è un problema è meglio rimuoverlo, magari negandolo, anziché risolverlo. Credo però che nelle giovani generazioni le sensibilità, l’attivismo e la coscienza civile, stiano mutando in maniera molto rapida».

Prof. Rossella Merlino, la sottovalutazione della presenza mafiosa a Messina non crede abbia provocato un rafforzamento della cornice mafiosa?
«Per lungo tempo, la provincia di Messina è stata interessata da una sorta di “cono d’ombra”, determinato dalla maggiore attenzione rivolta alle province limitrofe considerate di tradizionale insediamento mafioso. Questa sottovalutazione ha avuto ricadute importanti sul piano politico e su quello sociale, ostacolando ad esempio il potenziamento delle strutture di contrasto e condizionando la percezione esterna del fenomeno. Al contempo, l’idea di Messina come provincia “a-mafiosa” ha permesso alle organizzazioni criminali presenti in città e in provincia di sviluppare un modello operativo per molti versi analogo a quello di Cosa nostra palermitana, e incentrato oggi sull’accordo e la negoziazione piuttosto che sul conflitto come espressione della propria forza. Questo ha permesso, soprattutto a partire dagli anni ’90, di gestire importanti interessi economici, relazionandosi con i sodalizi criminali delle province confinanti e con attori esterni al perimetro organizzativo».

Come viene percepito il “problema mafia” dagli studiosi degli altri paesi, e cosa dicono della percezione nel loro mondo?
«A lungo, la percezione del fenomeno all’estero è stata condizionata da rappresentazioni culturali spesso stereotipate o fuorvianti, che finivano con l'identificare la cultura mafiosa con quella siciliana (o meridionale in genere) tout court. Gli studiosi hanno indubbiamente contribuito alla comprensione del fenomeno mafioso, del suo radicamento sul territorio a livello locale e della sua capacità di espansione e di mobilità su scala nazionale e transnazionale, mettendo in luce la disomogeneità esistente, e le conseguenti difficoltà, nelle azioni investigative e giudiziarie di contrasto dei diversi Paesi».

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