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Messina, De Luca e le dimissioni: "Ora si passi alle cose serie"

Va bene, la lettera è stata stracciata, il lungo spettacolo è andato in scena, è stato perfino messo il cartello di “stop agli asini volanti” sulla porta della stanza del sindaco. Ma ora, come ripete lo stesso De Luca, comincia un'altra fase, quella che dovrebbe portare alla naturale scadenza del mandato e durante la quale si attendono risposte alle drammatiche esigenze di una comunità in ginocchio (non certo per colpa di De Luca, sia chiaro).

Era una follia pura lasciare la città senza guida in una fase ancora tragica dell'emergenza pandemica, soprattutto senza una motivazione gravissima. Se ne faccia una ragione, il sindaco, ma cause tali da determinare il ritorno alle urne proprio non siamo riusciti a scorgere neppure con il lanternino. Perché lo scontro con il Consiglio comunale (destinato a proseguire, anzi ad arroventarsi ancor di più) diventa letale solo in presenza di una vera mozione di sfiducia, che non è mai stata all'orizzonte, nonostante le durissime polemiche. Perché la vicenda dell'Asp di Messina - sulla quale, lo ripetiamo per l'ennesima volta, il sindaco, a parte gli insulti rivolti alle persone, ha ragionissima, alla luce delle troppe carenze e omissioni da parte dei vertici dell'Azienda sanitaria provinciale in tutti questi mesi di era Covid - in ogni caso non poteva giustificare l'abbandono della locomotiva in corsa da parte del capotreno. Perché qualsiasi altra considerazione, come le battaglie contro i politici nazionali e regionali, viene sempre, e comunque, dopo l'interesse generale.

E allora, che si chiuda questa fase, bene. Che si continuino “guerre per difendere la nostra comunità (pensiamo alla vicenda del Recovery Fund, sulla quale giustamente la Giunta De Luca ha presentato un atto di diffida a tutela dello Stretto e di tutte le città del Sud o alla sfida per il risanamento e l'eliminazione delle baracche), benissimo. Ma siano gli atti e i fatti a parlare. Ci sono mesi decisivi per Messina, non possiamo più sprecarli in mezzo a quelle che Goldoni avrebbe definito le «baruffe chiozzotte», liti tra comari.

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