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Messina, la secessione di Montemare: un'idea che affonda le radici nel disagio

Un migliaio di abitanti in meno di Santa Teresa di Riva, qualche decina in più di Villafranca Tirrena. Se al referendum “scissionista” del 13 dicembre vincesse il sì e nascesse Montemare, con i suoi 8.700 abitanti diventerebbe l'undicesimo comune della provincia di Messina. Non esattamente un paesino. Anzi, in rapporto anche all'estensione del territorio - circa 61 kmq, si pensi che Barcellona non arriva a 59, Patti si ferma a 50 -, fatta eccezione per i centri nebroidei che includono ettari ed ettari di boschi, diverrebbe tra i centri più importanti del Messinese. È questa una delle ragioni che i promotori del referendum - i quali oggi vedono avvicinarsi un traguardo al quale in tanti guardavano, ormai quasi dieci anni fa, con scetticismo quando non sarcasmo - espongono di fronte a chi osserva che, di questi tempi, la tendenza è più quella di accorparli, i comuni, piuttosto che farne sorgere di nuovi.

Ma alla base di un progetto che, se dovesse arrivare a compimento, rappresenterebbe una rivoluzione storica per l'intera città di Messina, e non solo per i tredici villaggi coinvolti (da Castanea delle Furie a Piano Torre), c'è molto altro. C'è un disagio le cui radici affondano nel 2005, quando l'allora commissario del Comune, Bruno Sbordone, ridusse le Circoscrizioni da 14 a 6. Non a caso lo stesso quesito referendario fa riferimento alla vecchia dicitura, parlando dei territori del XII e del XIII Quartiere. Del resto “Montemare” era proprio il nome del XII quartiere.

Quel disagio è ben descritto nel progetto che, nel giugno 2012, fu consegnato - insieme a qualche chilo di faldoni - agli uffici comunali, insieme alle 2.354 firme raccolte per chiedere, appunto, l'istituzione del referendum. In quello “start” di un lungo iter c'era già tutto. Secondo i promotori la scelta accentratrice del Comune aveva «penalizzato ulteriormente tutte le realtà periferiche» della città, in particolare quelle realtà che, «pur appartenendo oggi al Comune di Messina, non riscontrano una effettiva comunanza di bisogni, di continuità fisica e di interessi con la città stessa». Non solo: «L'estensione della sua superficie - si legge in quel progetto -, la distribuzione sulla stessa degli insediamenti abitativi dei villaggi, la lunga e tortuosa rete viaria di collegamento fra gli stessi, dà piena contezza della attuale ed inefficace gestione operata dall'amministrazione comunale, aggravata anche dai forzati accorpamenti delle circoscrizioni».

In quel progetto, che resta la base di partenza di tutta “l'operazione Montemare”, venivano elencati anche i punti di forza dal punto di vista socio-economico, elementi anche di “sostentamento” del nuovo comune: da «un moderno sviluppo dell'agricoltura» con un'attenzione particolare «all'aspetto qualitativo dei prodotti locali» al rilancio di «aziende agrituristiche, percorsi enogastronomici, fiere del gusto»; dalla valorizzazione turistica del patrimonio boschivo a quella di «numerose chiese ricche di opere d'arte, fortificazioni militari polivalenti, ville storiche di pregio, manifestazioni cultuali ormai consolidate, riti e processioni sacre»; dai dodici chilometri di costa, «spiagge, insenature e luoghi di rara bellezza naturalistica» a progetti ambiziosi come «strutture ricettive» e «un porticciolo turistico».

I promotori del referendum (sono circa 40 i cittadini che compongono il comitato, suddiviso in gruppi di lavoro) non vogliono sentir parlare di salto le buio: «Nessuna possibilità di fallire nella creazione del nuovo comune», che sarebbe “tutelato” nella fase iniziale da un commissario regionale, fino a quando risorse, tasse, uffici e amministrazione in genere non saranno autonomi. Sembra fantascienza? Lo hanno pensato in tanti, in questi anni. E pensandolo - e continuando a non capire quel disagio di partenza - siamo arrivati alla “vigilia” di un referendum al quale, per riuscire fino in fondo, potrebbero anche bastare 3.501 votanti su 7 mila elettori dei villaggi interessati. Altro che fantascienza...

 

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