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Zucchero è immortale, a Messina è un'overdose di musica. Un concerto maestoso!

L'odore di menta e rosmarino, la fragranza dei granai, le atmosfere dei vecchi vinai. L'amarcord di Oro, incenso e birra (a 35 anni dal disco dei dischi che ha dato il nome all'Overdose d'Amore World Tour 2024). Il profumo pungente del blues, leggero, popolare, infestante, immortale. L'essenza di salsedine e la brezza umida dello Stretto che appiccica addosso ogni sensazione. Percezioni talmente materiali da toccarti la pelle, da accarezzarti la faccia.

Appena Zucchero è salito sul palco (introdotto dalla straordinaria, extraterrestre Oma) e ha acceso il buio del Franco Scoglio, si è riempita pure la luna su Messina. In aria si respirava l'incontro di mani, su ad acclamare o giunte in religioso silenzio, in un singhiozzo di tempi (quelli che hanno a che fare con le epoche e quelli della musica) costruito ad arte. Eccolo Sugar col suo live maiuscolo, maestoso, suonatissimo, intonato. Ecco il suo concerto antico e sempre nuovo, inedito e sorprendente (la scaletta l'abbiamo scoperta pezzo dopo pezzo, tanto con quella band può permettersi tutto quanto).

C'erano meno filtri di telecamere e più occhi nudi dentro lo stadio. Si sa che "La vita ti porta ad alternare momenti di dolcezza a momenti che ti fanno girare il cazzo. Ma bisogna essere positivi". Bisogna prendersi gli spazi. Anche per sedersi in poltrona e chiacchierare come in un salotto con decine di migliaia di invitati, per accennare canzoni e lasciare che finiscano nell'immaginario di ciascuno.

Un canto libero, un cuore libero, un santo che ha tradito, un partigiano reggiano che in una sera d'estate ha reso fiera la città che l'ha ospitato.

Per Bono lui ha (lui è) una "voce da vecchio whisky". Lui che pure al fianco di Luciano Pavarotti è parso enorme e il duetto virtuale su Miserere ha riportato in vita la memoria, ha moltiplicato le voci. Zucchero e i suoi 400 cappelli (tra quello di Gang's of New York e quell'altro appartenuto a Bob Dylan, domenica sera ne indossava uno con piuma bianconera).

Prima l'accoglienza timida ("Eh ma come siete educati... siete siciliani o valdostani? Io ricordo una Sicilia rivoluzionaria. Ciao Messina, grazie di essere qua! Avevo paura foste cambiati, ricordavo un pubblico molto più acceso, adesso ci siamo capiti"). Poi la dichiarazione d'amore. "Qualcosa mi lega ai siciliani, che sono generosi, che quando decidono di esserti amici lo sono per sempre. La vostra accoglienza vi fa onore".

C'era gente dalla Calabria, di Malta, c'era l'Australia, il Canada, le donne e gli uomini che dalle terre lontane prima o poi tornano a sempre a casa. "La Sicilia è ovunque". In tutti quei pomeriggi così celesti dei bambini che consumavano la strada a furia di giocare, almeno fino a quando l'eco delle nonne non rimbombava nei vicoli come richiamo inevitabile. "Delmo, Delmo, vin 'a ca'": e quel nome non è tutti i nomi? Quel nome domenica ci ha chiamati tutti, ciascuno dalla propria lontananza, in quell'ordine alla ritirata (dolcissimo e protettivo, perentorio eppure concessivo) si è sentita l'eco di tutta la nostra tradizione e l'immagine di un passato familiare più che mai. Tutto lì ad un passo.

In una sera d'estate è tornato tutto in scena. Messina è stata teatro e lo spettacolo s'è compiuto.

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