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La storia del poeta barcellonese Bartolo Cattafi. La verità, il nostro male che ci cura

Tra pochi giorni il centenario della nascita. È stato uno dei grandi del Novecento, la sua voce è attuale e indispensabile, eppure oggi è ingiustamente escluso dalle antologie

Apocalittico? Talvolta. Ancorato alla realtà? Sicuramente, anche se non manca il piglio metafisico che, anzi, ha una forza sempre aguzza. C’è qua e là un taglio cronachistico? Sì, ma c’è anche una visione distopica. Perché i suoi versi, così “strani” rispetto alle mode e agli stilemi a lui contemporanei, ci appaiono perfettamente legati al nostro oggi. Eppure, non si tratta solo di una visione lunga, ma di qualcosa che sembra cogliere la realtà umana con una capacità che prescinde dai riferimenti temporali. Si sente in azione il bisturi che taglia per scoprire la verità e, forse, anche per curare. Un modo di incidere che non fa sconti, anche quando – perché capita – il verso si fa carezza, dona pure speranza che va oltre una certezza più radiografica che pessimistica. Il centenario della nascita di Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 6 luglio 1922 – Milano, 13 marzo 1979) porta con sé una serie di interrogativi irrisolti e non certo sul fatto che sia stato uno dei maggiori poeti del nostro Novecento e neppure sull’evidente circostanza che ancora oggi appaia – salvo a chi non vuole vederlo per partito preso – un protagonista.
Gli interrogativi riguardano la strana circostanza di un poeta molto pubblicato in collane prestigiose (come “Lo Specchio”di Mondadori), con prefazioni e poi commenti importanti, da Giovanni Raboni a Sergio Solmi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni e Carlo Bo, e poi totalmente escluso dalle antologie più importanti, fra cui quella, ritenuta fondamentale, curata da Pier Vincenzo Mengaldo, “Poeti italiani del Novecento”.
Nato orfano di padre, in una famiglia ricca di frequentazioni culturali, dopo un periodo giovanile dedito ai viaggi e alle avventure in terra straniera, in cui si autodefiniva un sosia di Hemingway, con i primi versi che lo echeggiavano (e che qualcuno utilizzò per metterlo da canto, ignaro in malafede di tutto il dopo, ovvero di tutto il vero centro della sua produzione), la sua lama era diventata il verso. Assistito da un carattere franco e mai lezioso (quando ebbi la fortuna di conoscerlo nella sua casa di Terme Vigliatore, insieme con la sua grande moglie Ada, ormai minato dal male che lo avrebbe ucciso, appariva così: gentile per tutto il necessario, distaccato e partecipe, cortese e deciso, se occorreva anche affettuoso, sempre acuto, con quel disincanto nostro siciliano che, facendo da specchio, costringeva sempre a nuovi pensieri; un ricordo meraviglioso), si era tenuto sempre distaccato da mode letterarie e modaioli ripetitivi. Eppure nell’occasione dell’uscita del libro di Mengaldo, sfoderò di nuovo la lama, e non è difficile immaginare che a colpirlo fu più l’evidente ingiustizia che il fatto in sé.
Mancavano due mesi alla sua morte, avvenuta in una clinica di Milano, ma non esitò a scrivere alla Mondadori, il “suo” editore allora diventato complice di quella vergogna: «L’antologia del prof. Mengaldo è a mio avviso il frutto di un’operazione bizzarra, snobistica, estremamente opinabile, rozzamente partigiana». Una definizione che sembra in linea con certi suoi versi, di quelli spesso definiti epigrammatici (qualcuno ha usato, con una banalità oltre ogni confine, l’aggettivo «telegrafico», pur intendendolo in senso positivo), dove le parole sembrano diventare le uniche possibili e sono talmente taglienti da non avere il bisogno di una struttura discorsiva completa.
C’è una poesia, pubblicata nella raccolta “La discesa al trono” del 1974 (quindi dopo il silenzio creativo durato dal 1963 al 1971), dal titolo “Liofilizzati”, che può anche non essere tra le più significative, ma che mi pare perfettamente rappresentativa di quanto ho cercato di dire: «Un mondo in rovina / fatto di sfarinati / di liofilizzati animali / vegetominerali /emergeranno forti come prima / con colori con forme dall’ammollo / del nuovo diluvio universale / reintegrati nei propri uffici? / euridice è persa / - colorito turgore salute - / impari come orfeo / galleggianti rifiuti».
Non è polemica contro il mondo, è tagliente fotografia. Del resto, era stato lo stesso Cattafi a dir di sé: «…la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini». Cattafi è stato anche definito democriteo e pulviscolare, è stato avvicinato con buone ragioni a Kafka e Beckett, ma adesso tutte queste opinioni devono essere ripensate e rivalutate sulla base dei due corposi e intensi saggi che il curatore Diego Bertelli ha inserito (all’inizio e alla fine) nella nuova edizione della raccolta più famosa del poeta messinese, “L’osso, l’anima” (1964), riedita proprio per celebrare questo centenario da Le Lettere, la stessa casa editrice che ha pubblicato tre anni fa l’opera omnia (sempre a cura di Bertelli).
Scrive, tra l’altro, Bertelli: «L’umanità della lirica cattafiana, la sua capacità di farci sentire, prima di tutto, di fronte a un uomo, è stata la qualità che le ha permesso di sfuggire al tempus edax (il tempo che divora, nda) e a qualsivoglia processo di storicizzazione. Una cosa sorprendente è infatti la chiarezza dei versi cattafiani, la loro “attualità”. Cattafi, in questo senso, è unico; e lì risiede il suo tratto distintivo: egli riesce, con assoluta disinvoltura, a tenere insieme fisica e metafisica delle cose entro i margini di un discorso rapido, snello e intellegibile; è questa, per Raboni, l’ “inconfondibile intonazione cattafiana, capace di conciliare un massimo di precisione e secchezza con un massimo di indeterminatezza e fluidità”».
Non solo. L’estrema sintesi di linguaggio del poeta mi ricorda l’incredibile espressività degli haiku giapponesi, quelli che in tre versi secchi sviluppano tantissimi concetti e immagini e li fanno risuonare nella mente e nel cuore di chi legge. Ecco, i versi di Cattafi hanno la stessa forza della sintesi e dell’espressione, dirompente e non più soltanto interiorizzata. Neppure una sillaba è superflua, tutto è estremamente chiaro, non servono interpretazioni: ci siamo noi, c’è la nostra Terra, c’è il nostro trascendente, ci sono i nostri sentimenti e i nostri difetti, ci sono le tensioni e le speranze, c’è il cammino della nostra vita. C’è tutto. Solo un grandissimo poeta può riuscirci.

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