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Il pittore francese Caillebotte protagonista del romanzo del messinese Luigi La Rosa

«Gustave Caillebotte è stato un genio assoluto, un uomo dall'intelligenza sottile ma soprattutto un essere profondamente inquieto, che ha saputo trasformare il proprio tormento in arte. Caillebotte anticipa pienamente il Novecento: la sua è un'arte metafisica della sospensione, un'arte filosofica e concettuale che parla di incomunicabilità, di solitudine, di vuoto esistenziale. La sua modernità è tale da renderlo ancora oggi incompreso. Troppo lontana e diversa dagli schemi innovativi, ma ancora in parte tradizionali, degli altri Impressionisti». Così Luigi La Rosa, scrittore e giornalista messinese (vive tra Parigi e Catania ed è autore, tra le altre cose, di “Solo a Parigi e non altrove” e “Quel nome è amore. Itinerari d'artista a Parigi”), ci parla dell'artista che seppe trasformare la bellezza in incanto e al quale ha dedicato il bel romanzo “L'uomo senza inverno” (Piemme), ambientato nella Parigi di Napoleone III.

La splendida capitale ricca di fermenti culturali, la Parigi di Zola, di Baudelaire e di Nadar, e di Monet, Degas e Manet, Pisarro e Renoir, Sisley e Cézanne, che Caillebotte frequentò al Café Guerbois e sostenne con la sua generosità, comprandone anche le opere. Di ricca famiglia altoborghese, allievo di Bonnat, amico di De Nittis che lo persuase a consacrarsi alla pittura, aveva molte passioni nelle quali eccelleva, il canottaggio, il giardinaggio d'arte, la fotografia, il collezionismo. Morì ancora giovane, a 46 anni. «Certi uomini - scrive La Rosa (che martedì sarà a Messina in prima nazionale) - non conoscono inverno. Questa è la storia di uno di essi».

Luigi, come è nato questo romanzo?
«Il romanzo, come per tutti i miei libri, è nato da una suggestione, una voce che ho creduto di ascoltare, un dipinto che ho ammirato. In questo caso si trattava dei “Raboteurs de parquet”, visto al Museo d'Orsay durante un lontano soggiorno parigino. Vi si narra la poesia semplice di tre piallatori riversi su un pavimento pieno di trucioli e segatura. Ma la luce, i gesti degli uomini, le loro posizioni erano già note di un'armonia, capitoli di una storia. Quella che ho sentito il bisogno di raccontare nel libro».

Un uomo sensibile e generoso, Gustave Caillebotte, aperto ma anche tormentato. Cosa ti ha attirato di più della sua personalità?
«Sicuramente l'inquietudine, oltre all'inguaribile solitudine. Nei suoi dipinti uomini e donne vagano per la città come sperduti, spesso sotto acquazzoni o piogge lente. In parte incarnano l'estetica baudelariana del flâneur, in parte vanno oltre, quasi inseguissero una ricerca personale faticosa e insaziabile. Inoltre, Gustave Caillebotte è il primo pittore che mostra, con stile fotografico, la Parigi moderna, haussmanniana, quella che conosciamo oggi, un artista dalla malinconia profonda e toccante. Il ruolo di mecenate avuto all'interno del gruppo impressionista ha in qualche misura oscurato la fama della sua pittura».

Quali sono gli aspetti peculiari della sua arte? Cosa lo accomunava agli impressionisti e cosa lo distingueva da essi?
«Lo accomunano agli Impressionisti i casi della vita (gli viene offerto di esporre insieme al gruppo proprio dopo il terribile rifiuto del Salon), le amicizie condivise, lo spirito di ribellione nei confronti di una scuola pittorica obsoleta e rivolta al passato. Gustave, proprio come i suoi amici impressionisti, ritrae una parabola nuova, colma di emozioni e brividi, e punta al presente come perenne oggetto d'osservazione. La città, la campagna, le imbarcazioni, i cieli sconfinati, la pioggia, i venti, gli eventi atmosferici: sono temi cari agli Impressionisti e sono gli stessi che tornano in moltissime delle sue più belle opere».

Come e in quanto tempo si è svolto il tuo lavoro?
«Il mio lavoro è maturato negli anni, mentre scrivevo gli altri miei libri parigini e andavo e tornavo da Parigi, impegnato nei miei laboratori di scrittura creativa. È stato uno sforzo di ricerca, che mi ha spinto a visitare biblioteche e musei, ma anche le case dell'artista, caffè, ristoranti, i luoghi parigini e la sontuosa dimora di Yerres, accumulando sensazioni, impressioni, ipotesi sugli eventi personali della vita. Poi, come sempre accade, la magia della parola prende di colpo il sopravvento e ricuce misteriosamente tutto in una narrazione».

Quali sono gli elementi storici della tua ricostruzione e quali quelli d'invenzione?
«Gli elementi storici sono quelli riguardanti la cronologia della vita del pittore, la storia della sua famiglia e le vicende artistiche e politiche del secolo: l'Impero, l'Impressionismo, la guerra franco-prussiana, la Comune. Inventata è invece la vicenda sentimentale di Caillebotte, sulla quale ancora oggi si addensano ombre e contraddizioni, anche in rapporto alla sua presunta omosessualità».

Nella parte finale del romanzo c'è uno scarto narrativo. Dalla terza persona si passa alla prima persona di Anne Marie Hagen/Charlotte Berthier. Chi era?
«Charlotte Berthier è la giovane che trascorse insieme al pittore i suoi ultimi anni di vita. Ma il suo ruolo storico è ancora troppo confuso: in certe note viene indicata come domestica, in altre invece figura come compagna ufficiale di Caillebotte. Quel che è certo è che egli rifiutò sempre di sposarla, pur nominandola erede di parte del suo imponente patrimonio. Nel romanzo ho cercato di far luce su questo rapporto complicato e ambiguo, comunque pieno di devozione, di un amore non fisico ma mentale, intellettuale, un rispetto e una comprensione reciproci. Nel farlo non potevo che dar voce alla protagonista, cercando di calarmi nella sua sofferenza personale. Non mi rimaneva che immaginarla e, un po' come Flaubert, diventare lei e la sua passione impossibile».

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