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Enrico Lo Verso: un processo creativo frutto d’un animo tormentato e chiuso

Nelle sale da oggi al 3 ottobre “Michelangelo – Infinito”, sguardo su uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Distribuito da Lucky Red e prodotto da Sky e Magnitudo Film (già assieme per “Caravaggio – L’anima e il sangue”), il docufilm di Emanuele Imbucci è un percorso visivo e narrativo nella vita e nella genialità artistica di Michelangelo Buonarroti, per raccontare la genesi dei suoi capolavori, dalla “Pietà” al “David” fino al “Giudizio universale”. Un cammino reso tangibile nelle sue mille sfaccettature dall’utilizzo di sorprendenti tecniche di ripresa in altissima definizione (4k HDR), grandi effetti digitali e visivi ed una narrazione in campo di Enrico Lo Verso e Ivano Marescotti, nei panni di Michelangelo e di Giorgio Vasari, lo storiografo che ne raccontò il genio nelle sue celebri “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”.

L’attore palermitano regala una performance che, nel rendere il profilo umano del grande artista rinascimentale, mette in evidenza il suo particolare rapporto con la materia. Quali responsabilità comporta realizzare un film su un artista di questa levatura, e quali aspetti emergono della sua personalità e della sua arte?

«Quando si fa un film su un personaggio realmente esistito è importante offrire una visione d’insieme della storia, ma nello stesso tempo far conoscere l’uomo, dando così la possibilità a chi non è stato suo contemporaneo di capirne l’interiorità. In questo caso il film mostra quanto la creazione artistica di Michelangelo non sia stata un processo armonioso, rose e fiori, ma il risultato di un animo molto tormentato e chiuso. Era un uomo che viveva senza amicizie e senza gioie se non quella di affidare alla pietra l’espressione del suo mondo interiore. Un po’ era lui stesso pietra e un po’ con quella pietra riusciva a comunicare davvero.

Quando si guarda un’opera d’arte, e lo stesso Michelangelo l’ha vissuto in prima persona, si cerca sempre di verificarne la perfezione. Lo spettatore vede la forma; ma quell’opera vale qualcosa nella misura in cui sottende un bisogno di comunicazione. A 24 anni lui realizza la “Pietà” ed è perfetta, mentre in tarda età fa i “Prigioni” e sono sbozzati, o la “Pietà Rondanini”, forma perfetta da una parte e sbozzata dall’altra. Michelangelo fa risaltare la materia e con essa il bisogno di far leggere il significato intrinseco dell’opera, non solo la possibilità di rimanere stupefatti davanti all’esecuzione».

E la sofferenza dell’artista emerge tutta nelle sue realizzazioni più famose…

«Infatti della Pietà colpisce questa sofferenza estrema, data dalla circostanza, e non resa da un urlo o da un’ esternazione. È tutta dentro perché non può non esserci. La sua sofferenza era infatti tutta interiore, perché lui non era un uomo dedito a vizi o lussi. Viveva all’insegna di una disciplina anche eccessiva, tant’è che ha vissuto molti anni contro la media del tempo di 38-40 anni».

Qual è stato il lavoro tuo e del regista Emanuele Imbucci per sottolineare l’aspetto umano di Michelangelo, parte integrante della creazione artistica mostrata nel film?

«Con Emanuele abbiamo trovato subito un buon affiatamento che ci ha facilitato la preparazione del film. A me sono stati affidati i racconti di alcuni momenti della vita di Michelangelo ed è stato quindi necessario selezionarli, rendendoli in una forma comprensibile a chi vive l’attuale quotidianità. Abbiamo lavorato insieme su questo aspetto; ma in più lui ha avuto il compito di rendere sul grande schermo il nostro immaginario nei confronti di Michelangelo, avvalendosi anche dell’apporto di tutti coloro che hanno contribuito alla buona realizzazione del film, da Matteo Curallo, autore delle musiche, fondamentali nella peculiarità della storia, al direttore della fotografia Maurizio Calvesi».

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