Ha trascorso quasi metà della sua giovane vita tra le comunità per minori e il carcere, Ivan Lauria, il detenuto messinese morto a 28 anni nel carcere di Catanzaro lo scorso 15 novembre. Fin da quando aveva 13 anni è stato un entrare e uscire da una struttura detentiva all’altra, fino all’ultima dove ha trovato la morte. Una fine inaccettabile per la madre che gli stata sempre vicino e che, fino all’ultimo, ha sperato di salvarlo.
«Credevo nella possibilità di recuperare mio figlio, sapevo che sarebbe stato difficile, che gli sarei dovuta stare sempre addosso e che la mia vita la dovevo dedicare a lui fino a quando non recuperava al cento per cento ma che mi sarebbe arrivata quella notizia, proprio non me lo aspettavo». Non si dà pace Michela Lauria, la madre di Ivan, che adesso cerca la verità sulla morte del figlio «anche se mio figlio non me lo restituirà nessuno». Vuole capire come è morto, perché nessuno l’aveva avvisata che era stato trasferito nel carcere di Catanzaro. Ad affiancarla in questa battaglia l’avvocato Pietro Ruggeri che fin dall’inizio ha seguito le tormentate vicende del ragazzo. Per questa morte c’è un’inchiesta della procura di Catanzaro che ha disposto l’autopsia, si attende l’esito. «Purtroppo Ivan ha fatto degli sbagli fin da quando aveva 13 anni, non era ancora imputabile. Fino a quel momento era un ragazzino come tanti altri, era un iperattivo. Gli piaceva tanto andare a pescare, amava le moto quando ha fatto la prima comunione gli abbiamo regalato una minimoto. Per il resto era sempre con me».
«L’avevo avuto a 19 anni - ricorda - l’ho cresciuto da sola con l’aiuto dei miei genitori. Poi ho comprato casa, sono andata a lavorare presso una ditta di pulizie del Papardo ma all’inizio avevo poche ore e uscivo molto presto da casa in modo che quando tornavo potevo accompagnare Ivan a scuola per tempo». Negli ultimi anni Ivan aveva ritrovato anche il rapporto con il padre. Crescendo sono arrivati «i primi sbagli», il furto di qualche motorino. È iniziato così un continuo trasferimento da una comunità all’altra. «Lo seguivo sempre - prosegue la madre - gli stavo accanto. A 14 anni è stato portato nel carcere minorile, i ragazzini si induriscono, non diventano cattivi, ma più duri e questo li porta sbagliare sempre di più». Poi sono arrivati i problemi con la droga: «Intorno ai 18-19 anni ha cominciato anche con il crack, nel frattempo ha iniziato ad entrare e uscire dal carcere». I problemi sono aumentati e le condanne si sono accumulate ma Michela non si è mai arresa: «Ho cresciuto mio figlio con una regola: gli dicevo mi devi raccontare tutto, non mi devi nascondere mai niente». E Ivan raccontava tutto alla madre che capiva pure i silenzi: «Quando in carcere non mi rispondeva sapevo che c’era qualcosa che non andava, andavo da lui, facevo richieste tramite l’avvocato». «Viaggiavo anche di notte per incontrare mio figlio, per un’ora di colloquio se ne andava una giornata. Lui è stato sempre in carcere. Da quando aveva 14 anni ai 28 anni è stato al massimo 2 anni e mezzo libero. Una vita difficile».
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