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Colpo di scena al processo Nebrodi: in aula i verbali del pentito barcellonese Micale

La procura antimafia di Messina ha depositato l’atto di appello dopo la sentenza di primo grado

I punti contestati della sentenza di primo grado sono 53. E spaziano per tutto il processo. Riguardano sostanzialmente il lungo elenco di assoluzioni totali e parziali e le revoche di confische. Con una novità clamorosa, ovvero la richiesta di riapertura del dibattimento per sentire in aula il neo collaboratore di giustizia, il barcellonese Salvatore Micale “calcaterra”, che ormai da mesi sta raccontando tutto quello che sa sulla mafia di Messina e provincia, e non è stato certo un personaggio di secondo piano nelle gerarchie della “famiglia” del Longano, in quanto da sempre vicinissimo al boss Carmelo D’Amico.
Ecco il lungo atto d’appello che la Procura antimafia di Messina ha depositato dopo la sentenza del maxiprocesso Nebrodi sulle truffe agricole della “mafia dei pascoli”, i clan dei gruppi tortoriciani, i Batanesi e i Bontempo Scavo, che si è registrata il 31 ottobre del 2022. In pratica seicento anni di carcere e oltre 4 milioni di confische decisi dai giudici del Tribunale di Patti, con 91 condanne e 10 assoluzioni.

Una sentenza storica, arrivata dopo un procedimento chiuso in tempi record per la giustizia italiana, se si pensa che è stato avviato nel marzo del 2021. È il presidente della sezione penale del Tribunale di Patti Ugo Scavuzzo, con accanto i colleghi Andrea La Spada ed Eleonora Vona, quel giorno a leggere per oltre un’ora la lunghissima sentenza per i 101 imputati.
Adesso, dopo il deposito delle monumentali motivazioni di quella sentenza, avvenuto nei mesi scorsi, si è trattato di ben 3249 pagine, lo sguardo di tutti gli attori giudiziari è rivolto verso il processo d’appello, con il deposito dei propri atti da parte dei tanti difensori impegnati, sono quasi un centinaio, e ovviamente anche dell’accusa.
L’atto in questione è siglato dal procuratore aggiunto di Messina Vito Di Giorgio e dai sostituti della Dda peloritana Fabrizio Monaco, Francesco Massara e Antonio Carchietti, che sono poi gli stessi magistrati che si sono alternati sul banco dell’accusa al maxiprocesso.

E il primo punto centrale dibattuto nelle 53 pagine dell’atto d’appello è ritenuto fondamentale dai pm: il tribunale di Patti non ha considerato il gruppo dei Faranda, capeggiato da Aurelio Salvatore, come un’associazione mafiosa organica al gruppo dei Bontempo Scavo, ma come una associazione a delinquere semplice; secondo la Dda ci sono invece le prove, e le evidenze del dibattimento lo hanno confermato, che il gruppo dei Faranda dovrebbe essere considerata un’associazione mafiosa a tutti gli effetti, per la cosiddetta “unitarietà” della mafia in un determinato territorio. E su questo aspetto la clamorosa novità è rappresentata dalla “carta Micale” che si giocano i magistrati, ovvero due verbali inediti del nuovo pentito che parla del gruppo Faranda, con la richiesta contestuale della riapertura del dibattimento per sentirlo in aula.
L’altro aspetto importante delle contestazioni dell’accusa alla sentenza di primo grado è sulla qualificazione giuridica degli operatori dei CAA, i Centri agricoli che smistavano le migliaia di pratiche fasulle sui terreni agricoli: in sintesi secondo i giudici del tribunale di Patti - lo hanno scritto in sentenza -, si è trattato di “incaricati di pubblico servizio”, i magistrati della Dda insistono invece nel dire che invece si tratta di “pubblici ufficiali” a tutti gli effetti (da questa qualificazione giuridica è dipeso anche il “quantum” di parecchie condanne, con l’esclusione dell’aggravante della cosiddetta “fidefacenza dell’atto”, n.d.r.).

Ma torniamo alla presunta “mafiosità” del gruppo Faranda secondo la Dda, collegato direttamente a quello dei Bontempo Scavo: «Che su un territorio definito e dall’estensione estremamente contenuta assoggettato - come riconosciuto dal Tribunale - al predetto “potere mafioso” – scrivono i magistrati della Dda –, ed anzi (persino) referente di netta spartizione ad opera delle due distinte articolazioni della famiglia possa operare - nell’ambito di uno dei rami di affari più redditizi per la famiglia mafiosa, ossia il settore delle truffe all’Agea - un gruppo associato estraneo alla famiglia mafiosa stessa (o, a tutto voler concedere, privo di correlazioni funzionali rispetto a tale famiglia), è eventualità davvero difficile da contemplare, anche solo in astratto. Non si tratta solo di una considerazione generale – proseguono i magistrati della Dda –, ma di un ben più penetrante problema di coerenza sistemica della pronuncia, che - da un lato - fondatamente e con argomenti monolitici descrive la mafia tortoriciana e gli interessi della medesima nel settore delle truffe in agricoltura, e - dall'altro - pare cogliere un varco (o, per meglio dire, una falla) nell’assoggettamento criminale che connota il fenotipo della famiglia mafiosa in argomento. Varco (o falla) talmente considerevole da consentire l’insinuarsi, nel predetto ramo di affari, di un gruppo di soggetti estranei alla famiglia forse persino sconosciuti (ma bisognerebbe disconoscere i legami di parentela intercorrenti tra alcuni di costoro e membri della famiglia) o tutt’al più tollerati (ma bisognerebbe disconoscere gli imponenti profili illeciti generati dalle truffe), senza che sia loro richiesto nemmeno un segno di gratitudine, nemmeno un redde rationem».
Per corroborare ulteriormente questa tesi i magistrati citano poi il pentito Micale. Ecco alcuni passaggi delle sue dichiarazioni: «... so chi sono i Faranda e che appartengono ai Bontempo Scavo, ma non ho rapporti. Me ne ha parlato Marino Gambazza Roberto, sia dell’Aurelio che di Faranda Antonino. Nell’ambiente criminale ho sempre saputo della loro vicinanza a Bontempo Scavo, in particolare di Antonino e dei fratelli. Prima che ne parlasse Roberto Manno Gambazza, già sapevo della vicinanza dei Faranda ai Bontempo Scavo, ma non ricordo chi me ne parlò. So che la vicinanza era di natura criminale e che si occupavano di animali e di agricoltura. Marino Gambazza me ne parla in carcere a Tempio Pausania, quattro o cinque mesi fa, poiché era uscito un articolo relativo al coinvolgimento dei Faranda nell’operazione Nebrodi. Mi disse che erano vicini a loro, che erano a suo dire dei referenti, ma senza esaltarne il ruolo, In pratica, erano messi là perché mancavano dei profili più importanti dei Bontempo Scavo in quel periodo. Mi fece la similitudine con Nino Foraci, ossia che erano profili non molto “qualificati” a suo dire, che avevano preso piede perché i vertici dei Bontempo Scavo erano detenuti. Mi parlò di una vicinanza ai Bontempo Scavo come famiglia, non ad un Bontempo Scavo in particolare».

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