La violenza è prima verbale. Parole che trasudano brutalità, disprezzo per una qualsiasi forma di convivenza civile. Poi diventa fisica. Una sequela di calci e pugni, ispirati da una foga senza senso, senza freni, senza attenuanti. Alla base c’è un pretesto, che nemmeno tale sarebbe. Una provocazione che ci si potrebbe risparmiare, tanto è futile rispetto alla furia cieca che segue. È questa la liturgia della violenza che macchia di sangue e paura una notte qualunque, un sabato sera qualunque, in una strada qualunque del centro città.
Che a tutto questo si dia il nome di baby gang o altro, in fondo, poco cambia. Anzi, è un dettaglio quasi irrilevante per chi, una violenza così cruda, la subisce sulla propria pelle e ne porta i segni sul corpo. Feriscono come lame affilate, infatti, anche altre parole: quelle di due vittime di una... aggressione qualunque (già, aggressione qualunque, frase che spaventa solo a pronunciarla).
È avvenuta circa un mese fa, in pieno centro, nei pressi della galleria Vittorio Emanuele. È agghiacciante il racconto che i due ragazzi, due ventenni, fanno ai carabinieri nel momento in cui sporgono denuncia. I due giovani erano insieme, un sabato sera, insieme alla sorella di uno dei due,. È mezzanotte passata, stanno facendo ritorno all’auto parcheggiata, nei pressi della quale c’è un gruppetto di quattro-cinque ragazzini, «dall’apparente età tra i 15 e i 17 anni». I quali «iniziavano a strattonare la calotta dello specchietto» dell’auto.
Ad una normale richiesta di spiegazioni, la risposta è: «Ma picchì ti rumpu u specchiettu? Chi problemi hai? Io ti rumpu tutto». E poi: «Vidi chi ti mazzu». L’amico del proprietario dell’auto si frappone per evitare guai. Ma ormai la miccia è accesa, la slavina di violenza è partita. Uno dei due ragazzi finisce per terra, viene preso a «calci e pugni». L’altro? «Schiaffi e spintoni». Il tutto «alla presenza di mia sorella, che accorreva verso di me». Il manipolo di quattro-cinque persone diventa una brigata squadrista: ne arrivano altri, sono quindici, sono venti. «Calci e pugni al volto, al costato, sugli arti, sulla schiena». Uno degli aggressori utilizza pure una stampella come arma.
Ancor più agghiacciante è un altro passaggio: «Cinque interminabili minuti... senza che nessuno degli astanti sopraggiunti per assistere alla scena sia intervenuto in nostro soccorso, o abbia richiesto l’intervento delle forze dell’ordine», racconta una delle vittime. Il silenzio, l’omertà, una imperdonabile indifferenza che si mischiano ad una immobile e morbosa curiosità.
Uno dei “baby squadristi” afferra per il collo una delle vittime, chiedendo dove sia il suo amico. Quest’ultimo si avvicina e viene a sua volta afferrato per il collo: «Chi facisti? Chi dicisti?». Sono le ultime domande che non necessitano di risposta. Il sigillo ha la forma di tre schiaffi, che chiudono la questione.
Basta così. Da qualche altra parte, in un’altra via qualunque, in un sabato sera qualunque, c’è qualche altro ragazzo da sottoporre ad una aggressione qualunque.
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