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Carcere di Cosenza "controllato" dai mafiosi, Gratteri e sindacati lanciano l'allarme

Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri

Il peso delle parole. Nicola Gratteri ha parlato a conclusione di un blitz antimafia della situazione all’interno del penitenziario di Cosenza negli anni scorsi. E lo ha fatto usando le confessioni rese al pm antimafia Camillo Falvo da nove collaboratori di giustizia appartenenti a gruppi criminali diversi dell'area settentrionale della Calabria.

Gli ex boss e picciotti hanno infatti svelato un contesto altamente compromesso nel quale gli ‘ndranghetisti ottenevano favori e vantaggi e gestivano interi piani della struttura detentiva. Le loro dichiarazioni hanno portato all’arresto – disposto dal gip distrettuale Massimo Forciniti – di due assistenti della polizia penitenziaria, Luigi Frassanito, 56 anni e Giovanni Porco, 53, e all’incriminazione di un loro ex collega Franco Caruso, 56.

Il coinvolgimento degli esponenti delle forze dell’ordine ha suscitato delle prese di posizione. E con il magistrato s'è schierato pure il sindacato nazionale della polizia penitenziaria. «Per noi che lo denunciamo da almeno due anni con iniziative di protesta e di mobilitazione popolare in tutto il Paese – come attraverso la campagna “noi le vittime, loro i carnefici” – l’affermazione del procuratore Capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, secondo cui i detenuti 'ndranghetisti controllano il carcere di Cosenza, non è affatto una sorpresa»: lo ha affermato il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo chiedendo «grande rigore e severità» nella prosecuzione dell’inchiesta che ha coinvolto due agenti penitenziari di Cosenza.

«Noi siamo perché chi sbaglia e indossa la divisa, dopo l’accertamento di responsabilità, paghi persino in modo più severo dei cittadini senza divisa. Questo perché ci sono migliaia di agenti penitenziari che quotidianamente fanno molto di più di quanto dovrebbero in turni massacranti, in condizioni di lavoro gravissime, a rischio aggressioni e pertanto la divisa è per noi motivo di orgoglio e va difesa. Ma in attesa della ricostruzione dei fatti nel carcere di Cosenza – aggiunge – non si può scaricare ogni responsabilità su due agenti.

Lo Stato da anni ha perso il controllo di gran parte degli istituti penitenziari del centro sud come testimoniano 750 telefonini e sim trovati, in un anno, 11 chili di droga, e una trentina di reati al giorno commessi in carceri senza considerare le violenze tra detenuti (violenze sessuali, fisiche ecc.) sui quali i dati sono non pervenuti.

I capi clan di ‘ndrangheta, mafia, camorra continuano ad impartire ordini dalle celle agli uomini sui territori oltre che attraverso telefonini con il più tradizionale sistema dei “pizzini” che – dice Di Giacomo – sono fondamentali nella guerra scatenata per la successione dei boss in carcere. Basta sorveglianza dinamica, si torni alle celle chiuse subito. È ora di dire basta e tracciare una linea precisa tra vittime e carnefici».

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