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Landis e la forza dell’umorismo. Al Taormina Film Fest la masterclass dell’autore di numerosi cult movie hollywoodiani

«Io tutto questo successo non me lo sarei mai aspettato, ma una commedia degna di questo nome deve farti ridere»

Orson Welles una volta ha detto che uno studio cinematografico è come la più grande serie di trenini che un bambino abbia mai avuto. Come un bambino, John Landis si diverte facendo il suo mestiere come se effettivamente stesse giocando con qualcosa. Cinema come puro intrattenimento: «Mi ritengo fortunato perché, a differenza di molta gente che purtroppo non riesce a svolgere l’attività che ha sempre sognato, io mi guadagno da vivere facendo ciò che mi piace».

Simpatico e sicuro di sé, Landis, celebre autore di veri e propri cult movie come “Animal house”, “The Blues Brothers”, “Tutto in una notte”, “Una poltrona per due”, “Il principe cerca moglie” e il celebre videoclip “Thriller” con Michael Jackson, mette in mostra tutto il suo spirito tagliente appena ne ha l’occasione: raccolto l’invito del Taormina Film Fest, non si risparmia e parla per oltre un’ora di fila, nella masterclass dedicata a “La commedia al cinema”: l’umorismo è sempre stato il suo forte, sia come uomo che come cineasta. Spiega come una commedia diventi un cult movie: «Non c’è alcun segreto, io tutto questo successo non me lo sarei mai aspettato. Non saprei scegliere tra i miei lavori, in tutti ci sono delle scene che mi piacciono. Una commedia degna di questo nome deve farti ridere. Non sorridere, proprio ridere. L’umorismo è tutto, sia nella vita che nel cinema».

Comincia e non si ferma più: «Sono nato a Chicago ma i miei genitori si sono spostati a Los Angeles quando avevo appena quattro mesi. Un bel posto per crescere. A otto anni vidi un film con dei burattini: tornai a casa e chiesi a mia madre chi fa i film. Mi rispose: il regista. Per fortuna, non disse il parrucchiere. Decisi che avrei fatto quello nella vita e che per farlo avrei speso tutte le mie energie». Niente di meglio che vivere in California per chi vuol fare questo mestiere: «Ricordo che da ragazzino telefonavo a registi e produttori, prendendo i numeri dall’elenco telefonico, per chiedere un appuntamento, e molti mi invitavano davvero. Non sono stato un modello da seguire: ho lasciato presto la scuola e sono diventato portalettere per la Twenty Century Fox, dovevo aprire le lettere e mandare autografi. Dietro i palazzi degli studios c’erano terreni con tutto il ben di Dio per realizzare un film: stazioni ferroviarie e spaziali, fiumi palazzi, case. E si capiva dove si stava girando dall’odore di marijuana. Una volta un soldato del Vietnam ci chiese di avere il reggiseno di Rachel Welch, bellissima, perché nessuno credeva che lui la conoscesse davvero. Andai in sartoria e me ne procurai uno, forse più piccolo di quello indossato dall’attrice e glielo inviai. Seguì lettera di ringraziamento».

Difficile accompagnarlo sulle montagne russe della sua carriera. «Alla Fox mi dissero che mi avrebbero assunto se avessi superato la cortina di ferro. Accettai e feci un biglietto di sola andata da Los Angeles a Londra con la Twa: credevo che Londra fosse vicina a Belgrado. Comunque, ci riuscii e mi presentai con i capelli lunghi che, nel 1969, facevano la differenza. Ho lavorato con persone che poi avrei ritrovato in lavori futuri. Per “Animal House” mi dissero che mi avrebbero fatto fare il film solo con la presenza di una star. Telefonai a Donald Sutherland che accettò. È fondamentale scegliere attori bravi, brillanti, talentuosi. Prendiamo “The Blues Brothers”, senza quel cast non sarebbe stato lo stesso film: Dan Akroyd fantastico, Carrie Fisher così divertente. Di John Belushi ho poco e tanto da dire: era un talento raro ma la droga lo ha annientato. Quel film ha fatto ripartire le carriere di alcuni musicisti ma penso con tristezza a quanti protagonisti sono morti nel frattempo».

Non serve sempre un piano prestabilito, “Il principe cerca moglie”, nacque per caso: “Quando Eddie Murphy me lo propose non c'era un copione, perché non avevamo le idee chiare e i produttori erano preoccupati. Ma andò tutto bene». E poi David Bowie: «Non c’era modo di renderlo meno elegante. Mia moglie, costumista, era stata chiara: qualsiasi cosa gli metti addosso, rimarrà sempre lui, geneticamente elegante».

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