Dall’arrivo a Messina «con una valigia che non era di cartone, ma quasi», al titolo di bomber di un Mondiale «che quella fortissima Italia avrebbe meritato di vincere». In otto anni la vita di un “picciotto” col vizio del gol si è ribaltata. Diventando dorata con gli yen piovuti dal Sol Levante nell’ultimo segmento di quella che è una favola calcistica. Quel ragazzo con chioma riccia e un micidiale istinto-killer in area di rigore è partito un giorno di mezza estate dal Cep della sua Palermo («Ho iniziato a lavorare giovanissimo, ma mi piaceva solo giocare a calcio. E segnare») per diventare «il Totò Schillaci conosciuto in tutto il mondo».
Un orgoglio che fa tutt’oggi brillare gli occhi spiritati di quel ragazzo nato per far gol. Un dono di natura che gli ha permesso di realizzare i suoi sogni: «Diventare calciatore, poi indossare la maglia della Juventus di cui sono stato sempre un grande tifoso. Toccando l’apice nel ’90 con quel Mondiale in cui la gioia per il titolo di capocannoniere non è bastato per alzare la Coppa».
Quest'anno Totò festeggerà il trentesimo anniversario dalle “notti magiche”, «inseguendo un gol, il primo, nato dalla panchina. Quando Vicini contro l’Austria mi ha detto “Totò, riscaldati”, ho capito che quella era la mia occasione. E non me la sono lasciata sfuggire». Una vita raccontata in videochat alla Gazzetta del Sud (oggi la replica su Rtp alle ore 12.30 e alle 18.40 e su Gds Tv – canali 72 e 607 – alle 15 e alle 20) da colui che resta un monumento del calcio messinese e un’icona nazionale di quell’estate italiana.
Tutto è nato nell’estate del 1982. I gol di Paolo Rossi, la Nazionale che vince il Mundial e quel treno che parte in direzione Messina...
«Mi ero messo in luce nell’Amat e nelle Rappresentative giovanili. Mi aveva cercato anche il Palermo. Ma la chiamata del Messina fu la più convincente. La società pagò 35 milioni per il mio cartellino: non avrei mai potuto immaginare che sarebbe stato il trampolino verso il grande calcio. A Messina ho subito ricevuto l’affetto di cui avevo bisogno. Non avevo neanche diciott'anni...».
Ingaggiato per la Berretti, Schillaci si fa subito largo in prima squadra tra il ritiro di Molveno e la Coppa...
«Ballarò dimostrò subito di voler puntare su di me. Feci un’ottima preparazione mettendomi subito in luce con le mie qualità: avevo entusiasmo e sapevo far gol anche di fronte ad avversari sgamati. La prima rete arrivò in un derby di Coppa al “Celeste” contro la Reggina. Poi a Potenza il centravanti titolare (Alivernini) si fece espellere e la domenica dopo, contro il Banco di Roma, giocai dall’inizio segnando con un colpo di testa. In quel momento la mia vita prende la piega che ho sempre desiderato. Quel ragazzo umile che portava il borsone proprio ad Alivernini stava sfruttando la sua occasione».
Era il Messina dei giovani e bravi palermitani. Tu, Napoli, Mancuso...
«Questo fattore mi ha aiutato molto. Nicola era già al terzo anno in giallorosso, un leader di quella squadra. Io e Carmelo, invece, facemmo coppia fissa vivendo, nel primo periodo, a casa di una signora che ci ospitò nel quartiere di Montepiselli. Io e Mancuso abbiamo intrapreso un percorso molto simile: dopo Messina la sua grande chance è stata il Milan, ma la sfortuna ha voluto che assieme a lui emergesse un tale Paolo Maldini...».
Primo anno ed è subito promozione.
«Il vecchio “Celeste” lo ricordo sempre pieno. Tutta quella gente ti dava una carica incredibile. In quella stagione segnai anche a Gioia Tauro e contro la Palmese nella penultima in casa prima della festa. Spesso anche i miei genitori partivano da Palermo per vedermi giocare. E nei loro occhi leggevo la stessa felicità che provavo io. A fine campionato, è vero, segnai solo tre gol, ma a 18 anni avevo firmato il mio primo contratto da professionista (da 3 milioni e 500mila lire al mese, ndr)».
Il secondo passaggio epocale per la tua carriera è l’arrivo di Franco Scoglio, il Professore.
«Un secondo padre per me. Ha subito capito che con lui potevo compiere il salto di qualità. Mi diceva: “Totò, a te non serve provare questo schema. Tanto fai gol lo stesso”. I fatti gli hanno dato ragione. Se sono maturato, lo devo soprattutto a lui».
I consigli di Rossi e Bellopede, la classe di Catalano e Caccia: è stato più facile per il giovane Totò?
«Ho avuto la fortuna di crescere accanto a grandi uomini e grandi giocatori. Romolo e Antonio non lesinavano di rimproverarmi se sbagliavo qualche comportamento. Non nascondo di aver anche preso qualche schiaffo, quelli che ti aiutano a crescere. Due leader dello spogliatoio. E le magie di Caccia e Catalano. Due grandi, impossibile per me dire chi lo sia stato di più. Entrambi mi hanno permesso di segnare tanti gol».
Quattro gol al primo anno di C1, 11 in quello del salto in B…
«Nella prima stagione il servizio militare mi strappò molte energie. Viaggiavo spesso in settimana (il Car ad Orvieto, poi fu destinato a Napoli, ndr) e non era facile giocare la domenica senza aver partecipato agli allenamenti con la squadra. Segnai contro Catanzaro e Palermo, arrivammo terzi. L’anno dopo ci prendemmo ciò che meritavamo: ho potuto esprimermi al meglio e il gol-promozione a Benevento è stata una gioia di fronte a tanti messinesi».
La B un mondo tutto nuovo. Pochi gol nella stagione in cui la A fu gettata alle ortiche nelle ultime giornate…
«Scoglio non mi faceva pesare i miei errori. Segnai in Coppa, all’Atalanta, uno dei miei gol più belli in giallorosso. Ma in campionato mi sbloccai alla fine del girone d’andata contro la Sambenedettese, i tre soli centri furono deludenti come il nostro finale. Potevamo fare meglio in quell’ultimo mese e mezzo, ma non dimentichiamo che eravamo una matricola. Nessuno ha alzato il piede dall’acceleratore. Tutti volevamo la promozione. L’anno dopo, invece…».
Tredici centri, ma il Professore poi vi saluta.
«Lo aspettava il Genoa, probabilmente quell’anno si è esaurito il ciclo iniziato con lui nel 1984. Personalmente la stagione è positiva, ma davo l’impressione di poter segnare di più».
E arriva Zeman. Il rapporto col boemo?
«Con lui sono esploso in termini realizzativi. Il suo gioco offensivo favoriva le mie caratteristiche. Ventitré gol (uno dei quali, bellissimo, al Genoa di Scoglio, ndr), il titolo di capocannoniere e un contratto con la Juve. Con Zeman un buon rapporto, ma non paragonabile al feeling che ho avuto col Professore. Ci sono anche stati momenti difficili e infatti è capitato che mi abbia escluso dall’undici titolare (contro il Taranto con tanto di contestazione al “Celeste”). L’allenamento per lui valeva più della partita, ma correre non è mai stato il mio forte... Però se la Juve mi ha preso un po’ di merito è anche suo».
E di Nicola Napoli…
«Da quando è arrivato a Torino non ha fatto altro che sponsorizzarmi con Boniperti. Gli diceva: “Presidente, prenda Totò. È fortissimo. Farà un sacco di gol anche in bianconero!”. Nell’estate dell’89 Massimino ha fatto cassa (7 miliardi e 200 milioni di lire): ho coronato il mio sogno».
A Torino anche Tacconi è stato un fratello maggiore…
«Stefano è stato fondamentale anche al Mondiale. Se mi sono ambientato in fretta lo devo anche a lui, oltre che a Nicola che alla Juventus era già alla terza stagione. I gol sono arrivati subito anche grazie alla fiducia di mister Zoff che mi ripeteva spesso: “Gioca come fossi ancora nel Messina”. Quindici non sono pochi al primo anno di Serie A, un bottino che mi ha permesso di salire in corsa sul treno azzurro».
Ci fu quasi una “sommossa” popolare: il ventiduesimo convocato deve essere Schillaci…
«Sì, è vero. Percepii che la gente mi voleva, Vicini mi convocò per un’amichevole prima di decidere di portarmi al Mondiale. Fu una grande emozione già solo far parte di quel gruppo di campioni. Quella era una Nazionale fortissima, meritava il titolo. E non avrei mai creduto che io, l’ultimo arrivato, potessi essere il protagonista di quelle notti».
Contro l’Austria inizia la favola.
«Stavamo zero a zero, mancava un quarto d’ora. Vicini mi chiese di scaldarmi. Pensavo parlasse con Serena, invece ero proprio io il prescelto ad entrare. Alla prima palla ho fatto gol. Perfetto il cross di Vialli, in mezzo a due marcantoni austriaci ho staccato bene, il boato dell’Olimpico e lo sventolio di tricolori mi hanno accompagnato nella mia prima indimenticabile esultanza azzurra».
Meritava miglior sorte quel percorso. Ma il fato ha voluto che sfidaste Maradona nella sua Napoli…
«Forse sarebbe stato più giusto giocare a Napoli nella prima fase e poi sempre a Roma, a distanza di trent’anni rivivo la stessa amarezza di quella sera. Eravamo più forti anche dell’Argentina, purtroppo un solo episodio (Caniggia che beffa Zenga in uscita, ndr) ci costò la finale».
Il rigore non calciato: perché?
«Non stavo bene e non era giusto presentarsi sul dischetto. Si disse che ebbi paura, ma non era vero. Figurarsi in quel Mondiale in cui ogni pallone che toccavo finiva in fondo al sacco».
Dopo il ’90 troppi infortuni.
«Soprattutto nei due anni all’Inter. La società puntava forte su di me (fu pagato 8,5 miliardi e la Juve fece… plusvalenza!) ma non ricambiai la fiducia a causa dei continui problemi fisici. L’occasione del Giappone l’ho colta al volo non solo per un discorso economico. Avevo bisogno di una nuova sfida, lì ho concluso la mia favola in un campionato ancora inesplorato (Totò fu il primo italiano a giocare nel Sol Levante) che mi ha regalato serenità e soldi».
Quanto ti fa male, oggi, vedere Messina nell’anonimato della Serie D?
«Non posso immaginare che il calcio sia finito così in basso. L’anno scorso ha avuto un contatto col presidente dell’Acr, Sciotto. Ci incontrammo a Cefalù per avviare un discorso di collaborazione tra la mia scuola calcio e il ruolo di testimonial che avrei potuto ricoprire. Non si fece più vivo nessuno. Ci restai male, a una chiamata del Messina non saprei dire di no. La mia favola è iniziata sullo Stretto, sarò eternamente grato a una città che mi ha dato tutto il suo amore facendomi diventare uomo e calciatore. E lanciandomi verso il grande calcio, quello che sognavo da bambino per le viuzze sterrate del Cep di Palermo».
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