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Messina, la sfida "giovane" contro illegalità e indifferenza: studiare, pensare e "parlare"

«Cosa possiamo fare noi per la legalità?». La domanda formulata dai giovani presenti è stata il dono più bello, il segno tangibile di quanto possano cogliere davvero nel segno iniziative come quella promossa dall’Ateneo di Messina assieme a Società Editrice Sud per parlare di lotta alla mafia, cultura della legalità e informazione di qualità con un pubblico speciale: studentesse e studenti delle scuole e dell’Ateneo. Cittadine e cittadini non di “domani”, ma già di un oggi difficile, dove l’illegalità non è solo nel grande crimine da cronaca nera, ma anche nell’atteggiamento quotidiano, più o meno rispettoso per le regole e le altre persone. E la vera sfida è quella della partecipazione, della comunità, del “fare”, spendendosi in prima persona - sin dai banchi di scuola - contro l’omertà e l’indifferenza nel segno dei quattro imperativi: “studia, pensa, parla, ama”.

Stato e stampa per la legalità

A consegnarli alla giovane platea sono stati relatori e relatrici della tavola rotonda “Progresso sociale e lotta alla mafia - Il ruolo dello Stato e della stampa”, promossa dall’Università degli Studi di Messina in collaborazione con Società Editrice Sud nell’ambito della GDS Academy del progetto Gazzetta del Sud in classe con Noi Magazine. Un dibattito per stimolare la coscienza civile alimentato dalla testimonianza di chi, con l’impegno personale, il coraggio e la determinazione, ha combattuto in prima linea la lotta alla mafia. Dal magistrato della Procura minorile di Palermo Massimo Russo, già membro della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano, al questore Rino Germanà, già dirigente della Squadra mobile di Trapani, al magistrato Emanuele Crescenti, procuratore della Repubblica di Palmi, con l’intervento dei giornalisti Nuccio Anselmo, cronista di giudiziaria della Gazzetta del Sud, e Giuseppe La Venia, inviato Rai del Tg1: tante le sollecitazioni emerse dal dibattito, organizzato dal prof. Pierangelo Grimaudo, docente di diritto pubblico del corso di laurea in Scienze dell’Informazione, che lo ha moderato assieme alla vicecaposervizio della Gazzetta del Sud Natalia La Rosa, responsabile dell’inserto Noi Magazine e della GDS Academy e coordinatrice - assieme alla prof.ssa Marialaura Giacobello - di Unime GDS Lab, il laboratorio di tecnica giornalistica promosso da Società Editrice Sud con l’Ateneo peloritano nell’ambito delle cui attività l’incontro rientrava.

SES e Unime tra informazione e formazione

In apertura, il saluto del presidente e direttore editoriale di Ses Lino Morgante - che, in collegamento, ha ribadito l’impegno dell’azienda sul fronte della cultura della legalità veicolata da un’informazione responsabile e dal coinvolgimento dei giovani tra informazione e formazione - e del prorettore vicario Unime Giovanni Moschella, che ha evidenziato l’importanza del concentrare, specie rispetto ai più giovani, l’attenzione sul fenomeno mafioso e sulle forme di contrasto. Russo ha spiegato che le varie forme di accondiscendenza popolare, e compiacenza fino alla complicità, sono state una costante della storia di Cosa Nostra. E se da una parte l’uccisione di Falcone e Borsellino ha creato una cesura culturale in Sicilia rispetto al fenomeno mafioso, in Calabria ciò non si è avuto per la ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale più ricca al mondo - come evidenziato da Crescenti auspicando sempre più incontri nelle scuole - con una base storico-sociale diversa e “popolare”, in termini di ribellione allo Stato. Ripercorrendo, quindi, i momenti salienti dell’arresto di Messina Denaro Matteo - tenuto così linguisticamente e eticamente a distanza - Russo ha parlato di “giubilo” collettivo, e dell’impegno delle forze dell’ordine e della magistratura, esortando studentesse e studenti a sentirsi sempre parte attiva della comunità. Tra i presenti anche docenti dell'Ateneo e una rappresentanza della Cisl territoriale composta da Nino Alibrandi, segretario generale della Cisl Messina, Giuseppe Costa, segretario Cisl Medici, Maurizio Fallico, segretario Cisl Università, e Gianfranco Giacobbe, presidente Anteas Cisl.

Responsabilità sin dai banchi di scuola

«Spesso siamo portati a pensare che la mafia sia lontano da noi, ma non è così. E tutti i giovani meritano un’alternativa, un futuro migliore, anche quelli nati nelle famiglie criminali», ha dichiarato Anselmo menzionando alcuni omicidi di mafia avvenuti nel Messinese, come quelli dei giovani Giuseppe Sottile e Graziella Campagna, e chiedendo ai presenti di impegnarsi nel quotidiano per combattere la cultura del sopruso. A partire da scuola e università «dove s’impara a dare il giusto peso a parole e azioni, anche nella comunicazione quotidiana - messaggi, social - con il coraggio di prendere le distanze da atteggiamenti scorretti e difendere chi ne è vittima, senza subire le dinamiche di gruppo» ha aggiunto La Rosa, sottolineando - così come la prof.ssa Giacobello coordinatrice del corso di laurea in Scienze dell’informazione e docente di Etica della comunicazione - la responsabilità dell’informazione professionale che, come evidenziato da Grimaudo, può fattivamente contribuire a fornire all’opinione pubblica i giusti strumenti conoscitivi anche al fine di evitare quella sensazione di sconforto e abbandono che determina distanza tra la gente e le istituzioni e una pericolosa acquiescenza, se non “riconoscenza”, alle logiche criminali.

La Venia (TG1): il "fattore umano" e il coraggio di scegliere

Il giornalismo che “consuma le scarpe”, “andando nei posti e parlando con la gente”, come diceva Mario Francese. A testimoniarlo è stato Giuseppe La Venia, giornalista adranese inviato del Tg1 che, in collegamento da Napoli, ha raccontato della sua lunga esperienza sui fronti più caldi della cronaca degli ultimi anni. Dai luoghi della pandemia, con la prima zona rossa a Codogno, alla guerra in Ucraina. E, di recente, il terremoto in Turchia e la strage di Cutro. E uno dei primi ad arrivare sui luoghi dell’arresto di Messina Denaro, trascorrendo un mese tra Castelvetrano e Campobello e seguendo le indagini sulle connivenze che avevano agevolato la latitanza infinita. Una prova importante, di mestiere, ma anche di umanità e di etica per il professionista siciliano: «Bisogna stare in mezzo ai fatti, né troppo vicino né troppo lontano - ha sottolineato - Ma in certe situazioni bisogna fare delle scelte , non puoi stare in mezzo. Io ho scelto di stare con lo Stato. E ho voluto raccontare le persone dando spazio a chi ci ha messo la faccia: perché c’è chi ha coperto ma c’è chi si è ribellato». Un “fattore umano” - da trasmettere soprattutto ai più giovani - al quale agganciare le peculiarità di una professione, come quella giornalistica, fortemente scossa come molte altre dal dilagare dell’intelligenza artificiale generativa: «Io ho le scarpe, vado sul posto, trasmetto emozioni, non metto insieme ciò che già esiste sul web. Questo, nessun algoritmo lo potrà mai fare».

L'intervista a Germanà (di Francesco Triolo)

Se Matteo Messina Denaro è stato costretto a diventare un latitante lo si deve in buona parte al lavoro suo e della Squadra Mobile che guidava a Trapani. Rino Germanà, è stato colui che ha “costruito” l’indagine che poi ha ricondotto a “lu siccu” i reati più efferati sino al percorso che lo ha portato a diventare un boss di Cosa Nostra. Lui stesso, divenuto poi questore e oggi un pensionato con voce calma e un fare denso di empatia e umanità, fu vittima di un attentato nel settembre del 1992: un paio di mesi dopo la strage di via d’Amelio un commando ha provato ad ucciderlo ed a capo di quella spedizione c’era proprio Matteo Messina Denaro. All’Università di Messina, di fronte alla platea giovane, ha cercato di lasciare il segno con un modo di parlare semplice, ma profondamente incisivo, richiamando “Il giorno della civetta” di Sciascia per dare un’immagine che possa definire la parola omertà ma anche per delineare un’inversione di rotta: «Non devono essere i cittadini ad andare incontro allo Stato, ma il contrario perché oggi c’è una sorta di distacco».

Germanà ha richiamato le parole di Massimo Russo, il magistrato con cui ha condiviso la rincorsa a Messina Denaro. «Per combattere la mafia occorre studiare, pensare, parlare ma bisogna soprattutto amare. Solo l’amore ci fa andare avanti. Perché sbagliamo se vogliamo definire la mafia, è indefinita. Se vogliamo descriverla, è impossibile. E la mafia divide, sempre, è contro la comunità».

Le domande di ragazze e ragazzi sono dirette, richiamano l’attentato che ha subito, il modus operandi della mafia che ha conosciuto. «Quando ho capito di essere nel mirino della mafia? Quando mi spararono, perché la mafia è un’associazione segreta, nessuno ha scritto sulla fronte “sono un capomafia”. E alla mafia non interessa altro che fare “piccioli”».

E la certezza che Messina Denaro Matteo fosse dietro Cosa Nostra è arrivata quasi per caso. «Io non l’avevo capito e in tanti non l’avevano capito. Ma una sera, in piena estate, sapevamo che su un’auto erano partiti in quattro ed uno solo era tornato. All’inizio non ci facemmo caso poi un collaboratore ha ricordato quell’episodio dicendoci “è lui, andateci dietro che non sbagliate”».

Ma come si fa a non cadere nelle lusinghe della mafia?

«Bisogna stare attenti, prima di tutto con sé stessi. Il denaro facile piace a tutti e la mafia è silente, si presenta con un bel viso. Quando ti agganciano, poi è difficile uscirne fuori perché si rischia di perdere i principi morali».

E quindi occorre che lo Stato, ma abbiamo parlato anche dei media, rispetti il ruolo di garante della comunità.

«Lo Stato è essenziale in ogni comunità. Il fine dello Stato è quello di garantire la sicurezza, il bene comune a tutti. La stampa deve concorrere nella realizzazione di questo obiettivo, “vive” la comunità anche se è chiaro che non si deve sovrapporre a quelle che sono attività investigative. Ma le indagini, la presenza dello Stato, l'evoluzione che segue poi sulla stampa è un segnale che si dà anche a chi vive il territorio della presenza dello Stato, della presenza di chi lotta contro la mafia».

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