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Addio al messinese Luigi Ghersi, grande artista "inattuale"

La salute lo aveva abbandonato già qualche anno fa, quando nel 2013 era tornato nella sua Messina. Ma aveva continuato a dipingere e a pensare alle grandi opere che hanno caratterizzato la sua produzione artistica. Quattro mesi fa aveva perduto la moglie Linuccia, donna forte, anzi fortissima, che era il suo sostegno. Eppure nella casa di riposo dove si era trasferito, prima dell’ultimo ricovero dettato dalla recidiva della sua malattia, aveva continuato a disegnare con matite e pastelli. Così, con le mani ancora immerse nella sua amata pittura, ieri ci ha lasciati Luigi Ghersi, appena un mese prima di compiere 90 anni. I funerali saranno celebrati martedì prossimo, alle ore 15,30, nella chiesa di Santa Caterina Valverde.

Ghersi, che dal 2006 beneficiava della Legge Bacchelli, è stato un grande artista, con una carriera ricca di importanti commissioni pubbliche, ma che tuttavia non ha avuto il completo riconoscimento che avrebbe meritato e che probabilmente un’accurata rilettura delle sue opere potrà consentire in futuro. Il perché è presto detto: lui non ha mai seguito le mode, non si è iscritto ad alcuna avanguardia, men che meno a quelle sempre più “neo”; al contrario ha seguito il suo istinto e le sue convinzioni, ha dato spazio al confronto tra i miti e la realtà, ha utilizzato la storia senza tralasciare la quotidianità del reale, ha messo la natura in primo piano proprio per il suo stretto collegamento con le caratteristiche umane. Insomma, è stato clamorosamente «inattuale».

Quando lo intervistai (era il gennaio del 2016) mi confessò: «Non posso dire di non essere inattuale. Ma la definizione non mi piace, perché non è un atteggiamento, non lo faccio per dispetto, ma per necessità intellettuale».
Del resto a raccontargli dei miti, quando gli stava fra le braccia, era stato il padre, il filosofo Guido Ghersi (protagonista di un caso letterario dopo la pubblicazione postuma, nel 1983, del suo romanzo “La Città e la Selva”, con protagonista Messina). Un fuoco che gli è rimasto dentro, anche quando, nonostante il diploma all’Istituto d’Arte di Firenze e l’insegnamento (artistico, naturalmente) nella sua città (in mezzo anche una laurea in giurisprudenza), decise di dedicarsi completamente al giornalismo.

Nel 1957 a Messina fondò il giornale “La Città”, insieme con Eugenio Vitarelli e Giuseppe Loteta, poi si trasferì a Roma, dove realizzò un’importante carriera, culminata nella vicedirezione di “Astrolabio”, rivista per cui – tra tanto altro – scrisse un mitico servizio da inviato sull’assassinio di Che Guevara.

Prima radicale, poi socialista, ha diretto uffici stampa ministeriali ai tempi del suo amico Nicola Capria. Continuò a dipingere e nel 1974 accadde ciò che non aveva previsto, ma sicuramente sperato: espose nella galleria “Due Mondi” di Roma e ottenne un clamoroso successo. Quasi se ne spaventò, ma decise: la sua vita da allora fu solo per l’arte.

«Ho fatto giornalismo – mi disse – con grande impegno morale, sociale e politico. Ma confesso di provare una sorta di rancore verso di esso, perché a lungo mi ha distratto dalla pittura, cioè dalla mia vera vocazione, cui mi sono dedicato completamente solo a quarant’anni».

A Messina c’è una serie di sue grandi opere, che forse neppure i suoi concittadini conoscono. Sono il frutto della sua idea costante, che l’arte non è fatta per stare nei musei ma nelle città, per la vita di ogni giorno. Le più famose sono i due murali in tempera vinilica nel polo universitario di Papardo, realizzati fra il 1986 e il 1988: “La battaglia sullo Stretto – Scilla” e “La traversata notturna dello Stretto – Le Sirene”. Quest’ultimo, ispirato all’”Horcynus Orca” dell’amico Stefano D’Arrigo, ritrae la moglie Linuccia (sempre protagonista quando dipinge nudi femminili) come Ciccina Circè. È la conferma di quello che chiamerei «classico contemporaneo»: nel rifarsi a stilemi antichi, Ghersi ci accompagna nei nostri giorni, indicando il legame di continuità col passato, che rimane al centro della nostra vista anche quando crediamo di rinnegarlo: «L’immagine della figura femminile che attraversa lo Stretto tempestoso – mi spiegò – è una celebrazione della donna».

Aspetti che ritroviamo nelle sculture («Mi piacevano da sempre, ho potuto farle quando ho avuto i mezzi economici»), come “Il soldato di Maratona”, finito quando già non stava bene, che si trova davanti allo stadio “Scoglio” (decisamente dimenticato e fuori mano) e celebra i valori della democrazia contro il potere assoluto. Ancora ricordiamo i bassorilievi realizzati per l’ospedale di Papardo (“Centauromachia”, in bronzo) e per la facciata della Fondazione Bonino-Pulejo, accanto alla Gazzetta del Sud, in ceramica. E ancora per l’Università di Reggio Calabria “Pegaso” in bronzo.

Le città non sono, però, sempre disponibili con l’arte: le sculture in vetroresina e in ferro (più un dipinto murale), per la riqualificazione urbana di Villa Lina sono state oggetto di vandalismo; il gruppo di sculture in bronzo “L’Agorà” per l’aeroporto di Palermo non è più fruibile; le pitture murali della Cappella dell’ospedale di Patti sono chiuse al pubblico perché il locale è diventato un ufficio.

A tutto questo si aggiunge un grande corpus di dipinti, studi e disegni (tutti oggetto di una meticolosa catalogazione da parte della nipote Barbara Fazzari), che comprendono vari soggetti: dai meravigliosi cavalli ai panorami, dalle crocifissioni ad altre figurazioni sacre riportate alla contemporaneità, dalle figure morte ai ritratti. Emergono evidenti i dichiarati richiami a Velazquez, Goya, Picasso («Credo – diceva – che un siciliano sia un po’ spagnolo»), ma anche a Bacon, con evidenti momenti di un espressionismo doloroso e critico. Mi vien da dire che Ghersi sia stato lo specchio rovesciato di Guttuso. Quest’ultimo è immerso in una realtà sanguigna e dai sentimenti primitivi in evidenza, il primo è esponente di una realtà più metafisica e simbolica e per questo più inquietante.

Non è un caso, ma c’è una ragione sentita e consapevole: «Noi siciliani – mi disse – siamo destinati a vivere permanentemente in una condizione di esilio. Siamo troppo antichi per poter essere moderni adeguandoci al nuovo e troppo consapevoli del peso inesorabile della storia per rifiutare la modernità. Tra noi e il presente si determina una distanza critica rispetto alla realtà».
Una condizione di fragilità e di forza, che Luigi Ghersi incarnava perfettamente.

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