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L'impresa del messinese Nunzio Bruno: a quota 6.891 metri il respiro dell’immenso

Chi più alto sale, più lontano vede; chi più lontano vede, più a lungo sogna: una frase che ha tracciato il sentiero ideale dell’alpinismo italiano. E sarà stata la corrente del sogno, instancabile all’incrocio dei venti, a scuotere gli abissi emotivi, sudori che impregnano il dolore, quello lancinante che pietrifica gambe e respiro di Nunzio. È a un passo dalla vetta dell’Ojos del Salado, il vulcano più alto del mondo (6.891 metri) tra Cile e Argentina.
La cima è vicina ma il corpo e i pensieri remano in direzione contraria, esausti implorano la discesa. Lui affonda i suoi 42 anni, un metro e novanta e 90 chili nella neve ancora fresca che arriva quasi alle ginocchia. Nei suoi polmoni c’è un eccesso di liquidi, il fiato è corto e affannato. Il confine che separa «il pensiero di dovercela fare ma anche di non potercela fare». Un conflitto radicale e drammatico che si staglia sull’orlo del crepaccio, dove la paura agita vortici ultimativi.
È qui che il sogno gli appare con una forza in più. Non una visione sciamanica, ma il viso tangibile di sua madre velato da una malattia ingiusta e inesorabile: «Sono una persona testarda, vado sempre fino in fondo. Ma avevo mollato – ricorda Nunzio –. Volevo fermarmi. Superati i 5.000 metri il corpo ti lancia segnali inequivocabili, diventa voce di sofferenza e preghiera. A quell’altitudine devi fare i conti con il 50% di ossigeno in meno. Ogni due passi è come percorrere 100 metri. Mi sono concentrato sul perché, sulla motivazione che mi aveva spinto a tentare l’impresa. Nella testa vedevo solo la mia famiglia, e soprattutto mia madre che convive con la Sla. In quel frangente ho pensato che le mie fatiche erano irrilevanti rispetto alla sua sofferenza, estesa a tutte le persone costrette a subire una progressiva degenerazione neuromuscolare, pur mantenendo capacità cognitiva. Così ho alzato gli occhi verso la vetta e mi sono mosso».
Il perché non è interrogativo macerante, ma consapevolezza. Che dà risposte alla paura, convincendola ad allentare le briglie. Sono solo cento metri. La distanza ora appare nelle gambe che si schiodano dalla paralisi e avanzano lente, mentre schioccano le frustate del nevischio, a cavallo del vento imbizzarrito, lama affilata alla ricerca di una fessura sulla sagoma di Nunzio.

Le tecniche di respirazione

«Le tecniche di respirazione mi hanno aiutato – ricorda ancora – ho intensificato il dialogo con la natura, così come mi hanno insegnato durante un corso che ho frequentato nella repubblica Ceca, secondo lo spirito degli indiani d’America e sono arrivato in vetta stremato. La guida che mi accompagnava ha capito che ero quasi cianotico e mi ha dato una pastiglia, avevo un principio di edema polmonare. Ma ero invaso da una sensazione di pace interiore, perché avevo risposto con amore a un evento che ha stravolto la vita della mia famiglia, portando dolore e rabbia. E nello stesso tempo, attraverso i miei occhi, potevo mostrare il mondo a tutte le persone colpite dalla Sla».
Il tempo delle foto con la bandiera della Sicilia, simbolo di un’appartenenza viscerale che coniuga l’isolitudine con i silenzi della montagna. Poi la discesa verso il campo base a 5.500 metri.
L’impresa sul vulcano più alto del mondo non è traguardo ma tappa di un cammino che si rigenera. E la cima di Nunzio non è la vetta da raggiungere alla fine di una scalata, non è solo sfida, avventura, o tacca da intarsiare sul suo bastone di alpinista: «Vorrei mettere in piedi un’associazione che possa offrire sostegno a coloro che soffrono di Sla. Non è una battaglia solo per mia mamma. La nostra esperienza familiare ci ha mostrato tutte le debolezze di un sistema sanitario che non garantisce adeguata assistenza alle persone colpite da questa terribile malattia. Non so se la ricerca avrà un futuro, ma intanto possiamo tutelare il diritto alla vita attraverso un conforto dignitoso».
La montagna è qui, nell’ispirazione che si fa lanterna nel buio, silenzio che dà voce all’essenza, confine tra il finito e l’immenso: «Mi ha insegnato a guardarmi dentro, ad ascoltare, a vivere il presente, rimuovere il frastuono della mente, lasciando aria alla gioia di un tramonto, ai suoni di un ruscello, alla maestosità di un ghiacciaio. Da piccolo prendevo l’autobus e giravo i villaggi di Messina, da Cumia a San Filippo, da Pezzolo a Giampilieri Superiore. Poi i primi bivacchi anche da solo sui Peloritani. In Marocco ho sperimentato la capacità di resistere al freddo, scalando i 4.167 metri del Toubkal. Il prossimo anno voglio provare gli 8.000 metri sull’Himalaya».
Ma Nunzio non aprirà solo un’altra finestra sull’immenso. Ci sarà sempre quel “perché” a muovere il passo dell’impegno sociale, del valore collettivo. Dello sguardo che non si rassegna. Del dolore che si fa lievito madre: «…una goccia di splendore, di umanità, di verità…».

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