Intorno all’auto quasi completamente bruciata, una Toyota Rav 4, c’erano i resti di alcune cartucce di fucile, le hanno repertate i carabinieri del Ris mentre le fotoelettriche illuminavano la campagna, una sperduta contrada Ferrera, a cavallo tra i paesi di Alì e Fiumedinisi, erano le undici di sera passata quando è stato scoperto tutto.
E dentro quell’auto c’era il corpo semicarbonizzato del pastore 34enne Riccardo Ravidà, un passato di reati contro il patrimonio e una condanna recente da scontare al carcere di Gazzi, a Messina, in regime di semilibertà. Solo che martedì sera lo aspettavano per il rientro in cella ma non si è presentato, e da lì è partito tutto.
Ieri mattina c’è stato un primo vertice in Procura, a Messina, per capire i motivi di questa morte atroce, basta pensare per un attimo al 34enne forse ancora cosciente dopo i colpi di fucile all’interno del suv che prendeva fuoco. In ogni caso l’autopsia è stata affidata dai magistrati al medico legale Giovanni Andò e forse sarà eseguita già oggi e chiarirà tutto. Dal primo esame di quel che resta del cadavere sembra comunque che non ci siano dubbi sul fatto che qualcuno, l’altra notte, gli ha sparato alcuni colpi di fucile, forse da distanza abbastanza ravvicinata e forse al termine di una violenta lite.
Nell’ambito dell’inchiesta avviata dalla Procura di Messina i carabinieri stanno quindi indagando per ricostruire le ultime ore dell’uomo, ma anche nel suo passato, per cercare di capire cosa sia successo, e al momento non è esclusa praticamente nessuna ipotesi. Anche se un tragicamente classico regolamento di conti tra pastori della zona sembra un’ipotesi allo stato molto concreta.
Si sta scavando nel suo mondo di amicizie e dissidi, sia recenti che passati, e in quello dei contatti avuti in carcere e anche all’esterno, quando usufruiva del regime di semilibertà.
Ecco chi era Riccardo Ravidà
Riccardo Ravidà, allevatore di 34 anni, moglie e tre figli da mantenere, si è trovato davanti la morte e non ha avuto scampo. Chi lo ha ucciso conosceva bene le sue abitudini, i suoi orari, e sapeva che sarebbe passato da lì dopo aver concluso la giornata di lavoro nell’azienda zootecnica dei fratelli Caminiti, che davano lavoro anche alla moglie nel caseificio a Fiumedinisi. Il 34enne era una vecchia conoscenza dell’Arma ed era stato arrestato il 31 gennaio 2020 durante un’operazione antibracconaggio condotta dai carabinieri delle Stazioni di Alì Terme e Fiumedinisi, assieme ai colleghi dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Sicilia, all’interno dell’area protetta della Riserva Naturale Orientata di Fiumedinisi, durante una battuta di caccia al cinghiale dove venne trovato con un fucile con matricola abrasa e canne mozzate, con altre nove persone due delle quali arrestate con lui. Nei mesi scorsi era arrivata la condanna definitiva in Cassazione a tre anni di reclusione e 2.400 euro di multa per ricettazione e detenzione e porto abusivo di arma clandestina, che Ravidà aveva spiegato di aver trovato un anno prima dell'arresto e che, al momento in cui era stato sorpreso con essa, aveva prelevato da poco nella casa dove era collocata e nascosta dietro un cespuglio, per poi utilizzarla nella caccia al cinghiale.
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