È stato il giorno dell’accusa al maxiprocesso Nebrodi sulle truffe agricole all'Unione Europea e all'Agea dei gruppi mafiosi tortoriciani, la "mafia dei pascoli" che ha drenato per anni milioni di euro nel silenzio di tutti. Terreni "fantasma" lungo la dorsale in mano alla mafia, molti rubati agli agricoltori onesti, che venivano intestati ai clan e servivano soltanto per incassare i contributi, tutti totalmente incolti o inesistenti. Fino a quando l'allora presidente del parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, non denunciò tutto, rischiando poi di morire in un attentato nel 2016.
Appena conclusa la requisitoria dei pm, l'ultimo a parlare è stato il procuratore aggiunto Vito Di Giorgio. Le richieste di pena ammontano a circa 970 anni di carcere distribuiti tra capi, gregari, fiancheggiatori e colletti bianchi imputati (si arriva a 1045 se si considerano anche i giudizi abbreviati celebrati alcuni mesi addietro).
Intorno alle 10 si è aperta l'udienza davanti al tribunale di Patti, in trasferta all'aula bunker del carcere di Messina-Gazzi, presieduto dal giudice Ugo Scavuzzo. Quattro i pm che si sono alternati per ricostruire l'intera vicenda e per formulare le richieste di pena o di assoluzione per i 101 imputati del procedimento. Insieme al procuratore aggiunto Vito Di Giorgio, i sostituti della Dda Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti e il collega della Procura Francesco Lo Gerfo. L'udienza è andata avanti per parecchie ore vista la mole di atti del "maxi" e il gran numero di imputati.
Aprire gli interventi dell'accusa è toccato al pubblico ministero Fabrizio Monaco: «L'ambito di operatività dell’associazione mafiosa riguarda il campo delle estorsioni, in genere con il meccanismo del cosiddetto cavallo di ritorno, usate anche per costringere i proprietari dei terreni ad abbandonarli, terreni che venivano poi usati da altri per lucrare sui fondi dell’Agea». Tutte le risultanze, ha aggiunto, «ci dicono che le truffe vengono commesse attraverso una corposissima serie di imprese. I batanesi e i Bontempo Scavo entrano in tensione per la gestione dei terreni che servono per la gestione delle truffe. Sono imprese che non hanno risorse e fondamentalmente coincidono con le persone dei mafiosi».
Dopo l'udienza di oggi è previsto un fitto calendario per gli interventi dei legali di parte civile e delle decine di difensori impegnati nel processo, che si snoderà tra luglio, agosto e settembre, mese in cui si avrà la sentenza di primo grado. Una curiosità. A seguire la requisitoria dell'accusa oggi c'è anche una troupe televisiva americana del programma di giornalismo investigativo Vice News Tonight, del canale Vice Tv, che realizzerà un lungo documentario sulla storia della mafia dei pascoli.
La genesi
Il Maxiprocesso nasce dall’operazione del 15 gennaio 2020 denominata “Nebrodi” con 94 arresti e il sequestro di 151 aziende agricole per mafia, una delle più vaste operazioni antimafia eseguite in Sicilia e la più imponente, sul versante dei Fondi Europei dell’Agricoltura in mano alle mafie, mai eseguita in Italia e all’Estero.
Più di mille uomini della Guardia di Finanza di Messina e dei Carabinieri del ROS quel 15 gennaio assicurarono alla giustizia numerosi componenti di famiglie mafiose contestando loro reati che ruotano attorno al lucroso affare dei Fondi Europei per l’Agricoltura in mano alle mafie combattuto con forza con il cosiddetto “Protocollo Antoci”, ideato e voluto dall’ex Presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci. L’attività della DDA di Messina, guidata dal Procuratore Maurizio De Lucia, ha squarciato il velo di silenzi e omertà che avevano soggiogato e sottomesso per anni un intero territorio e la Sicilia intera.
Così scrivevano magistrati nell’ordinanza: “In gran parte, oltre quelli depredati, si usavano terreni liberi, presi a caso da tutta la Sicilia e da zone impensabili dell’Italia, usati, spacciati come propri, per le raffinate truffe delle associazioni……; e ancora: “….la mafia che ha scoperto che soldi pubblici e finanziamenti costituiscono l’odierno tesoro e come siano diminuiti i rischi pur se i metodi restano criminali…..; e ancora: “…il campo di maggiore operatività è divenuto il grande business derivante dalle truffe ai danni dell’Unione Europea, come detto più remunerative e meno rischiose”.
Un meccanismo interrotto proprio da quel Protocollo che Giuseppe Antoci ha fortemente voluto insieme al Prefetto di Messina Stefano Trotta e che oggi continua ad essere applicato in tutta Italia. Quello strumento, recepito nei tre cardini del Nuovo Codice Antimafia e votato in Parlamento il 27 settembre 2015, ha posto le basi per una normativa che consente a Magistratura e Forze dell’Ordine di porre argine ad una vicenda che durava da tanti anni. Di fatto, tentano di aggirarla e vengono scoperti. Per tutto ciò l’ex Presidente del Parco dei Nebrodi, oggi Presidente Onorario della Fondazione Caponnetto, ha rischiato la vita in quel tragico attentato mafioso dal quale si è salvato grazie all’auto blindata e a quei valorosi uomini della sua scorta della Polizia di Stato, tutti promossi per merito straordinario e medaglia al valore, che quella notte ingaggiando un terribile conflitto a fuoco salvarono la vita al Presidente.
Proprio su questo argomento il Giudice scrive nell’ordinanza dell’operazione Nebrodi che ha generato il Maxiprocesso e che ha portato alla sbarra gli imputati: “.... nel contesto che emerge nella presente indagine di truffe milionarie e di furto mafioso del territorio trova aspetti di significazione probatoria e chiavi di lettura di quell’attentato... Antoci si è posto in contrasto con interessi milionari della mafia”.
“Abbiamo colpito con un’azione senza precedenti la mafia dei terreni – dichiara Antoci - ricca, potente e violenta, ed è per questo che quella notte volevano fermarmi. Volevano bloccare l’idea di una legge nazionale e dunque tutto quello che sta accadendo oggi. La richiesta di condanna della Procura di oggi, a chiusura di due anni di processo, mi fa ben sperare in una sentenza altrettanto rigorosa ed esemplare. Io sarò presente all’Aula Bunker quando sarà emessa la sentenza e li guarderò dritti negli occhi, uno per uno, senza paura, senza indugi e con l’unica forza che ho: quella dello Stato” – continua Antoci.
“Mi hanno tolto tutto, libertà, serenità, mi hanno costretto ad una vita complicata costringendo la mia famiglia a vivere in una casa blindata e presidiata dall’Esercito. Due cose però non sono riusciti a togliermi: la vita e la dignità e grazie a quest’ultima che attenderò la sentenza per poterli guardare negli occhi e poter dire loro: stavolta abbiamo vinto noi – conclude Antoci.
Caricamento commenti
Commenta la notizia