Ultimo grande appuntamento del settantesimo Taormina Film Festival con il Premio Oscar Giuseppe Tornatore e la proiezione del suo documentario televisivo in due parti «Diario di Guttuso» (1982), dedicato al concittadino bagherese Renato Guttuso, maestro della pittura del Novecento. Prodotto dalla sede regionale siciliana della Rai, il film contiene una lunga intervista alternata a testimonianze, letture di opere dedicate al grande pittore da nomi prestigiosi come Ignazio Buttitta, Carlo Levi e Leonardo Sciascia, assieme ad immagini di luoghi legati alla sua vita, tra cui la Vucciria – ritratta nell’omonimo e celebre dipinto del 1974 – , Villa Palagonia, luogo del cuore, spezzoni di programmi Rai di fine anni Cinquanta e primi anni Settanta (tra cui un’intervista a Guttuso di Enzo Biagi). La seconda parte si addentra più nel passato del grande artista, nei luoghi dell’infanzia: dalla borgata marinara dell’Aspra, vicino Bagheria, al laboratorio dei maestri Ducato, storica famiglia di decoratori di carretti siciliani da cui Guttuso imparò l’arte della pittura. Un modo di fare cinema, il documentario, che secondo Tornatore è anzitutto «atto di libertà». Lo ha affermato dopo la proiezione, nel corso del dialogo con la regista palermitana Costanza Quatriglio, rievocando un’esperienza e soprattutto una generazione di artisti davvero unica. «Rivedendolo dopo 40 anni sono rimasto colpito dal loro mondo, dal grande privilegio di aver vissuto un clima culturale e artistico fecondo, che forse noi non conosceremo mai – ha detto – . Guttuso parlava di Picasso come di un parente, ma il loro rapporto era fertile, fatto di scambi di idee e creatività, così come con Buttitta e gli altri autori interpellati per il documentario». Un’epoca di grande attività creativa quindi, con protagonisti straordinari. Ma esiste ancora oggi quel fermento? «C’è ma è diverso – continua il regista – . Noi abbiamo a disposizione mezzi che rendono gli incontri più facili e anche più vuoti; il loro rapporto era invece fatto di lettere scritte e incontri da organizzare». E proprio lo sguardo a quel glorioso passato mette sul tappeto la stretta relazione tra arte e politica di allora: «Per quegli artisti era normale che l’atto creativo fosse in se stesso politico. In questo risiede il vero cambiamento di quell’epoca rispetto ad oggi, in cui fare politica significa individuare con quali personaggi visti in tv ci si può schierare, per poi schierarsi il giorno dopo con altri. Tra quegli artisti c’erano scontri ideologici, ma anche personali, talvolta gravi, laceranti, e questo rendeva i loro rapporti più sofferti e impegnati politicamente». I concetti di “verità” e “realtà” per Guttuso erano fondamentali. Ma esiste una differenza sul significato di verità espresso nel film da Guttuso, e quello della filmografia di Tornatore e del cinema di oggi? Per chiarire il regista cita Francesco Rosi, che aveva uno scambio costante con Guttuso e sui concetti di verità e realtà aveva riflettuto una vita: «Per lui erano concetti diversi, convinto che si potesse ricostruire il contesto ma non la realtà. Sosteneva che un artista non potesse presumere di riprodurre la verità che non è in sé riproducibile. Un pensiero di grande profondità, e credo che Guttuso la pensasse allo stesso modo». Tornatore, che ha confermato di aver abbandonato il progetto di una serie su «Nuovo Cinema Paradiso», si è poi soffermato sulla serie inedita de «Il camorrista», presentata alla Festa del Cinema di Roma. «Girai il film contemporaneamente alla serie pur di fare il film. All’epoca non si pensava che le serie potessero avere successo, perché la grande stagione degli sceneggiati televisivi era considerata un ricordo. Il produttore Goffredo Lombardo aveva invece presagito che potesse esserci ancora spazio per quel tipo di narrazione. Questa sua convinzione lo premiò con serie di grande successo». Ma il dialogo torna al racconto di come sia riuscito a fare questo suo primo vero documentario: «Un giorno, avevo 25 anni e mi dilettavo di fotografia, mi accorsi che il pittore aveva salutato mio padre in maniera fraterna. E proprio in quell'occasione lui mi disse: tu che cosa vuoi fare?. Risposi: il cinema, e che avevo già fatto un documentario: “Il carretto”. Volle vederlo e andai a Palermo sulla mia Fiat 500 per mostrarglielo. Lo amò da subito e mi fece una recensione che venne pubblicata sul quotidiano “L’Ora”. La Rai di Palermo comprò poi il documentario, lo mandò in onda in due puntate e mi chiese anche di fare delle sostituzioni come operatore. Ormai avevo tutto per fare “Diario di Guttuso”». Nel futuro del regista un altro documentario di cui sta ultimando le riprese, un nuovo film – entrambi ancora top secret – e l’impegno come giurato a Venezia. «Da ragazzo per me era normale vedere due, tre film al giorno, ma la possibilità di vederli ora a 68 anni mi fa sentire come un bambino che va in un Luna Park da cui manca da tempo».