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Jaan Roose, quel “puntino nero” sperso nel nulla: l’emozione straordinaria e unica lassù ma anche quaggiù

Seguire da vicinissimo, grazie alle dirette streaming, e da lontano, dalla spiaggia affollata, trepidare e applaudire alla cosa da sempre più umana di tutte: rialzarsi dopo la caduta

A un certo punto è apparso. Un puntino nero, nel mezzo preciso del nulla, dentro la foschia che dorava e nascondeva lo Stretto. «Eccolo, eccolo», correva di bocca in bocca, tra il popolo eterogeneo della spiaggia messinese di Faro. Da giorni noi strettesi e faroti d’adozione ci esercitavamo per riuscire a scorgere almeno il filo, o meglio la fettuccia miracolosa (meno di due centimetri, larga quanto il cinturino d’un orologio) sulla quale Jaan Roose doveva camminare per 3.660 metri, sospeso nel nulla, in balia di vortici e capricci della speciale meteorologia dello Stretto (qui non sono venti, è Eolo; qui non sono correnti, è Cariddi...).

Anche quella fettuccia si nascondeva, si negava nel cielo che era via via fosco limpido rannuvolato luminoso, come sempre qui. Ieri mattina c’era quest’oro diffuso, e quell’effetto per cui le sponde erano poco chiare, più distanti – che la distanza nello Stretto, come tutti sanno, è mutevole e incalcolabile. Saranno anche, nel punto più vicino (quello dell’in-construendo Ponte), 3.300 metri, ma noi sappiamo che possiamo perderci di vista o ricongiungerci, con la costa calabrese, anche più volte al giorno. Ed era propizio, che fosse così: il vento che spazza e fa nitide le cose (le finestre dell’altra sponda che puoi quasi aprire, se ti sporgi) non sarebbe stato adatto all’impresa.

L’impresa procedeva sui muscoli d’adamantio e col cuore impavido di Jaan Roose, sportivo dell’Impossibile (si potrebbe tradurre anche così «slackliner»), e noi lo guardavamo, schizofrenici come i nostri tempi impongono: così vicini da spiarlo in volto, attraverso schermi e dirette vertiginose; così lontani da scorgere solo un puntino nero nel mezzo del nulla, ma sempre più nitido e vicino.
Prima, fino a quasi tre quarti della traversata, ci credevamo per fede, che fosse lì, sospeso in quello spazio quotidiano e sacro (nello Stretto le due cose vanno assieme: i miti e gli aliscafi che si scambiano le rotte, si salutano da vicino) e continuasse quella passeggiata pazzesca – le vedevamo nelle dirette le sue movenze da danzatore, la sua concentrazione da maratoneta – ma da quando ci è apparso non lo abbiamo più lasciato solo, lassù.

Eravamo tanti, tutti diversi: la solita gente della spiaggia, gl’insoliti visitatori. In mare, accanto allo storico lido Horcynus Orca (ieri ’Ndria Cambria c’era di certo, sorvegliava i delfini e le fere, il bene e il male che nuotano assieme), una piccola flotta di barchette chiassose, per guardare da un altro punto di vista ancora quello che a stento si poteva vedere (nello Stretto è così, devi scegliere: la riva o l’altura, in mezzo all’acqua o dagli oleandri, e ogni sguardo sarà diverso). Le madri e i padri spiegano, i ragazzi cliccano e scommettono, i bambini giocano a rifare l’equilibrista sulla battigia. Una signora anziana si preoccupa: ma chi lo piglia, se cade? È il più vicino a spiegarle dell’imbracatura, della doppia corda, come se davvero questo potesse azzerare il rischio enorme, la sfida mozzafiato (ma la parola “sfida” è talmente frusta e retorica: lo Stretto è una sfida ogni giorno con la sua rema precipitosa, i suoi garofali, i suoi fondali a strapiombo, le sue correnti rapinose. E chissà come li ha visti da lassù, Jaan Roose l’impavido che pure aveva occhi solo per la «slackline» davanti a sé).

Qualcuno ora alza la voce: «Dai, dai», e quella figura minuscola nel mezzo del niente non la lasciamo più. La diretta l’ascoltiamo soltanto: parlano di «bolla», di «supereroi», e forse gli sfugge che invece è la vittoria dell’umano, troppo umano, che fa un miracolo di volontà e disciplina, e affronta un frammento d’ignoto talmente potente che ancora i miti attraverso cui ce l’hanno raccontato gli antichi sono ben vivi, e lottano assieme a noi.

E infatti c’è pure lei, la divinità dispettosa che castiga gli uomini troppo arditi (una vecchia vicenda di hybris e invidia degli dei): a 80 metri, quando la figuretta danzante di Jaan – qualcuno scandisce i suoi passi, «sei e si ferma, quattro e accelera», come per marcarne il ritmo, l’onda – è vicina tanto così al ferro del Pilone, Jaan cade. Si leva un «ooohh» dalla spiaggia, dalle barchette colorate. Gli dei del mare e del vento non ci stanno, cercano di riprendersi il primato. Ma Jaan è un uomo ed è testardo, e fa quella cosa tutta umana: ricomincia. Si rimette dritto – che è già un’impresa, lassù, nella parte scoscesa del percorso, coi muscoli doloranti, il cuore che pompa veloce, tutto che si gioca in pochi centimetri, questione di presa d’attrito di forze di pesi –, ora il Pilone è a due passi, sono gli ultimi 80 dei 3660 metri, ma sembrano lunghi chilometri, appannati dalla fatica. Dalla spiaggia parte un applauso che non si ferma, lo accompagna per quei passi che restano, sospeso nel nulla, tutto volontà.

«Ce la fa, ce la fa», e chissenefrega della burocrazia dei record e dei tagliandi: applaudiamo anche più forte, proprio perché sotto i nostri occhi ansiosi s’è rialzato ed è ripartito. Un’arte che queste sponde conoscono bene.

«Oggi hai visto un uomo che cammina nel cielo», ha detto una mamma alla sua bambina mentre Jaan, esausto, dalla cima del Pilone guardava per un attimo indietro, alla strada percorsa – che non erano tre chilometri e mezzo ma un numero illimitato di passi in mezzo a venti vortici spinte e controspinte, in mezzo a epoche e epiche, a incredulità e passioni. E provateci, a non chiamarla impresa, o record. O mito.

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