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Messina tra ieri e oggi... Dai ricordi di una città che rinasceva dopo la guerra alle ferite ancora aperte

L'amarcord di una città dal vivere appieno gli anni del boom economico alla pandemia che ha fermato e rivoltato il mondo

Abbiamo descritto più volte su queste colonne la Messina che, dal conflitto mondiale, approda al dopoguerra sino ai tempi felici del boom economico. Dal terrore dei bombardamenti aerei alla ricostruzione compresa la ripresa alla grande del commercio e dei locali di svago. In prima linea c’erano la Fiera Campionaria, la Rassegna del cinema sul terrazzo dell’Irreramare con divi famosi e orchestre internazionali, l’Agosto Messinese col teatro dei 12mila, la mostra di “Antonello”, l’esordio della Gazzetta del Sud, le feste religiose con l’amata Vara, preceduta dal “passìo” dei Giganti, leggendari fondatori della città. Una storia di fede lunga 500 anni, la Vara, grandioso cippo votivo dedicato all’Assunta, immota manet mentre, la relativa processione venne sospesa per Covid nel 2020, come già accadde durante la rivolta antispagnola del 1647-48, i vari terremoti e le due guerre mondiali. Fin qui tutto rientra nelle regole perché le cronache d’ogni tempo hanno sempre portato la città a brancolare nella polvere o risplendere.
L’oggi del dopo Covid volta pagina, registra a Messina e nell’intero pianeta capitoli tristi, malvagi, d’assoluta svolta epocale, dominata dalla follia di dittatori eternamente alla ribalta. Sembra che nulla sia come prima, come se la pandemia avesse fermato il mondo, la gente tenta invano di riacquistare la smarrita gioia di vivere. Nella nostra città il fenomeno s’avverte pungente, tranne picchi di entusiasmo popolare per la visita di osannati divi della canzone e dello spettacolo in generale, accolti allo stadio, in ricreati fondali balneari di piazza Duomo, oppure nella suggestiva cornice di Capo Peloro. Messina appartiene a quelle città dallo scenario naturale che non hanno bisogno di maquillage, come la Roma di Fellini, la Napoli di Eduardo, la Parigi di Clair. L’anfiteatro del porto con la Madonnina benedicente ne sono spettacolare testimonianza già all’arrivo sullo storico ferry boat. Immagine resa geniale dal maestro Togo in un recente dipinto. Il resto langue avviluppato nel torpore di stagioni fuori termometro e determinate da echi sui movimenti municipali impastati da bilanci ondivaghi, sbandierati rapporti con l’altrove e da “simpatie” a organetto con i governi regionale e centrale. Il tutto s’avvale di termini, confezionati da acronimi presi a prestito dalla lingua inglese, abusati dal politichese, che lasciano il popolo dietro la porta del capire, mentre i corrispondenti vocaboli in lingua nostrana marciscono nel triste abbandono! La parola “okay” ormai fiorisce spontanea per i giardini dell’assenso. La semplice scampagnata diviene “pic-nic”, il fine settimana indiscusso “week-end”… di esclamazioni tipo “m’brogghia” non è rimasta traccia. Il termine era stato coniato per avvertire il babbeo di turno che stava per cadere nella trappola dell’intrallazzista.
A tal proposito non si contano gli stratagemmi da gran guinness. Sulla parte a valle di piazza Cairoli, dove sostavano i lustrascarpe, al tempo in cui mano palazzinara non aveva ancora diroccato lo storico istituto dei Gesuiti, tale Agostino iniziava un tipo di vendita semiocculta. Cioè poneva sullo sgabello una valigia di cartone, pronosticandone l’uscita del non meglio definito “Sarchiapone”. La battuta “m’brogghia” giungeva puntuale dal garzone di bottega della dirimpettaia pasticceria Pitrè. Il piazzista senza perdersi d’animo appellava il molesto impiccione con la classica frase: “Ragazzo lasciami lavorare”. Appena il numero degli astanti era sufficiente, preceduto dal classico “voilà”, Agostino svelava il mistero del contenuto della valigia, traendone delle saponette, distribuite in libera offerta da Carolina, l’allampanata assistente che a malapena si reggeva in piedi. Le poche lire raggranellate bastavano a stento per un paio di arancini da Bitto & Calatozzolo, rosticceria antesignana di Borgia e Nunnari, che rendevano sublime il mangereccio prodotto artigianale.
L’evento Festival del cinema era elettrizzante, si può dire che fosse entrato nel midollo dei vari strati sociali. Molte trame narravano di migranti, Chaplin ne era stato antesignano nell’arte e nella vita. Lo sciabordio dell’onda cullava i tanti che appollaiati sulle barche si godevano il film proiettato sul grande schermo dell’Irreramare. Le varie luci di rimbalzo dalla zona porto, lasciavano intravedere “schermaglie” tra pagnotte con la frittata e “pisciceddi i pani” (sfilatini) imbottiti di salame presumibilmente di Santangelo, provola di Montalbano e quanto altro le aziende nostrane riuscivano a produrre per far dimenticare la fame della guerra! Le luci dell’immancabile nave di transito, stagliavano netto l’alzata dell’orcio di terracotta “bummulu”, che teneva fresca la “botta” di vino, rigorosamente faroto.
La sera della prima edizione della Rassegna in tanti riconobbero Grace Kelly, futura principessa di Monaco, interprete principale del film “Fuoco Verde”, assieme a Stewart Granger. La scelta di portare il meglio della cinematografia internazionale contribuì al successo della manifestazione. I film si basavano su tre indirizzi vincenti: la Commedia rappresentata da “Gli ultimi cinque minuti” con Vittorio De Sica, Linda Darnel e Peppino De Filippo, il Melodramma, incarnato dal sentimentale “Non c’è amore più grande” con Antonella Lualdi e Franco Interlenghi e, infine, l’Opera lirica, realizzata per la celluloide da Camillo Mastrocinque in “Figaro”, tratto dal “Barbiere di Siviglia” di Rossini con Tito Gobbi, Carlo Campanini e la moglie di Amedeo Nazzari, Irene Genna, nel ruolo di Rosina.
L’abito da sera, d’obbligo alle prime edizioni della Rassegna, non impediva che, durante gli intervalli del filmato di turno, corressero espressioni dialettali cadute in disuso, tipo “caravigghianu” per dire esoso, come qualcuno giudicava il conto di 1200 lire per una comune cena al ristorante dell’Irreramare. Si pronosticava la “fussione” (raffreddore) a chi, per esempio, starnutiva di continuo. Era d’uso comune il termine “chi nicnac” quanto l’argomento era fuori tema, oppure definire “stinchillè” un momentaneo mancamento. Sparirono pure le nenie d’araba assonanza di cui s’udiva spesso “banniari” (bandire) per strada tipo “g’ghiosaa... haiu ghiosa, ghiosa niura che megghiu di frauli”. C’era “u n’duvina vintura”, una sorta di chiromante che, annunciandosi con la tromba, esibiva “u pupitto di scicgnac”. Si trattava di un diavoletto che, previo pagamento di pochi spiccioli, beccava un foglietto verde o rosa in cui gli avventori leggevano il loro destino, soprattutto sentimentale!
Piazza Cairoli, già salotto buono della città, coronato da negozi d’alta classe al tempo in cui la città, come la Sicilia di Colapesce si reggeva su tre punti: la libreria dell’Ospe con l’Accademia della Scocca che, nel segno del rettore Salvatore Pugliatti, costituiva la “cultura”, oggi strombazzata ai quattro venti per cui ci sono più scrittori che lettori! Il salone da barba del cavaliere Peppino Parisi, tracimante di “pettegolezzo”, e il ritrovo Irrera del commendatore Renato che, oltre a gelati di rinomata bontà, esprimeva ”opinione”. Era difficile che nei palazzi del potere passassero provvedimenti importanti, specie sul centro commerciale, col dissenso degli habituè del mitico bar che poi, alla fine erano i principali protagonisti delle decisioni in itinere. L’intera piazza conta 58 alberi che, quando vengono “scucuzzati” (potati in maniera esagerata), suscitano sorpresa e relativi commenti, rappresentando l’unico verde arredo. L’albero, a ridosso del mitico chiosco dell’acqua, è “reduce” di guerra, avendo conficcata nella corteccia una grossa scheggia, dovuta alla grancassa dei bombardamenti aerei. Sono finiti i tempi in cui la città era zeppa di sale cinematografiche e che, oltre il sopravvissuto “Vittorio”, contava teatri dove si esibivano compagnie di giro a livello internazionale. Il tram non tramortiva la zona porto, le relative cabine d’attesa avevano forme razionali e confortevoli e sul collo dei messinesi non incombeva il mausoleo in ferro, denominato graticola, che tuttavia troneggia sulla Piazza, sopra una fontana schizzagente!
La televisione, ancora balbettante in bianco e nero, faceva timido ingresso tra gli italiani. Erano ancora in pochi a potersela consentire dentro casa. C’era Mike Buongiorno che riscontrava successo con “Lascia o Raddoppia?”, Mario Riva autore del “Musichiere”, Enzo Tortora con “Portobello”, Il festival di Sanremo con canzoni che segnarono un’epoca. Fu quasi indispensabile ai locali pubblici attrezzarsi della “radiu chi pupi”, come sarcasticamente i siciliani definirono d’acchito l’apparecchio televisivo. La sua presenza, specie nei bar, significava accrescere la clientela. Era esaltante assistere alle dispute ciclistiche tra Bartali e Coppi, oltre le partite di calcio che, per quanto ci riguarda, riportavano la squadra del Messina, che militava in serie B e si preparava per il traguardo della A, raggiunto durante il campionato 1962/63.
Oggi il torpore estivo avviluppa la piazza. La lascia immaginare in una cappa di triste smog, tipo immota cartolina illustrata male! Rispetto a prima, i pochi, languenti negozi, non riescono a vivacizzarla, darle, come tutto il resto, il tono dovuto a una metropoli! Grappoli di perdigiorno d’annata, passeggiano la mattina per restare liberi il pomeriggio, mentre altri, dispersi tra panche imbrattate, ne acuiscono l’ozio. Nei gazebi dei bar, situati a monte, stazionano per lo più pensionati che, “nentidimenu”, si consentono la storica granita caffè con panna e brioche! A più riprese abbiamo intervistato un gruppo di anziani habituè per un raffronto con i loro pari che, un tempo, frequentavano il mitico bar a valle. La differenza è assolutamente lampante, il salto generazionale netto, a cominciare dall’abbigliamento. Allora era di rigore indossare d’estate abiti di lino bianco con tanto di “panama” a falde larghe che completava il bel vestire. Usciva dai canoni il titolare del bar, che praticava sahariane di stile coloniale. A parte il macinamento dei sì e no Ponte, oggi si è passati dalla classica giacca e cravatta, pure col solleone, al casual estremo, agghindato da nacchere al polso, collanine che pendono sopra magliette assurde, calzoncini corti che a malapena coprono oltraggiose vene varicose! Resta inseparabile il telefonino cellulare spia di quel sapere “prèet a portè” e d’ogni sfogo o protesta che sia, con in testa l’odierno caro benzina, bollette d’acqua, luce e gas!
Carmelo uno dei più contenuti, ci dichiara che la sera rientra in famiglia e non sciama come gli altri compari, scapoli o separati, per locali notturni, dove si balla, mangia, canta e si pratica il karaoke! Il nostro intervistato veste tradizionale, non per niente si dichiara figlio d’arte, avendo gestito negozi d’alta classe. Al massimo si consente pantaloni crema a righe blu percorsi, dalla cintola alla tasca destra, da una scintillante catena d’argento. Pasquale, d’indole spontanea e tendente al godereccio, ci confida che s’avventura sovente verso luoghi di “dinner & dance”. Sia il “bicolorato” Giulio, nei giorni in cui non abbia lezioni di danza oppure canora, che Mario, quando non è di scena teatrale, ci dichiarano che s’aggregano volentieri allo scialo d’allegre bisbocce. Franco, invece, si è rivelato accanito dissertatore d’eventi cittadini e non solo; Salvatore, dichiarando di essere all’antica, rispetta, pure nell’abbigliamento, la sua età di ultrasettantenne! Abbiamo atteso invano che, come ai vecchi tempi, passasse qualche politico. Pretesa assurda perché rigorosamente impegnati altrove ad elaborare “nentidimenu” che azzardati progetti per la città, tipo ideare parcheggi, oppure stringere la strade e allargare i marciapiedi su cui dovrebbero piantare i nuovi alberelli, a rischio d’essere sradicati da auto in manovra di posteggio.

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