La Sicilia segue l’onda del centrodestra, sulla scia di un percorso di governo che si consolida, nel segno di un’avanzata senza ostacoli. Si potrebbero frapporre alibi e “ammortizzatori” per giustificare il verdetto delle urne. A partire dalla speciale identità delle Amministrative, spesso sfuggenti e dissonanti rispetto ad equilibri politici più veritieri. Le elezioni locali, tranne i test nelle città simbolo (Milano, Roma, Firenze...) vengono derubricate in una chiave di lettura circoscritta alla promiscuità localistica. Un fattore diluito nell’analisi più ampia. Ma in questo caso limitare le valutazioni a fenomeni ristretti sarebbe un esercizio dissennato.
In realtà il risultato delle urne era quasi scontato. Pd e Cinquestelle si sono presentati o in ordine sparso, o da separati in casa. Un’alleanza innaturale, una camicia di forza dentro la quale i due partiti sono costretti a convivere, come due solisti che suonano leggendo spartiti incompatibili. Gli ex “grillini” di Conte sono alla ricerca disperata di un marchio di fabbrica dopo aver smaltito la sbornia. Il Pd, invece, appare sempre più smarrito e incapace di cogliere umori, ansie e fenomeni di una società che sta dismettendo i tradizionali ancoraggi politici. E in questo senso non si riconosce in una proposta alternativa fondata su schematismi superati, con l’aggravante di un deficit di credibilità “maturato” in tanti anni di promesse disattese e delusioni.
Non a caso, soprattutto in Sicilia, questo vuoto di riconoscibilità emerge dalla natura ibrida dei candidati, anche quelli nelle città più importanti, dove in una cornice di centrosinistra il Pd faceva comunque svettare la sua bandiera, marcava il territorio, si identificava con il suo simbolo. Nelle quattro città più importanti (Catania, Siracusa, Ragusa e Trapani), invece, il Partito democratico si è ritagliato un ruolo a rimorchio, miscelandosi nella “marmellata” civica che ha distinto le proposte politiche dei candidati d’ispirazione progressista. D’altronde il patto con il movimento Cinquestelle non ha trovato neanche un biglietto da visita per presentarsi agli elettori. Da una parte il centrodestra. E dall’altra? Emblematico il caso di Catania, dove il Pd aveva terreno fertile per competere, alla luce di una stagione di governo che ha scritto una delle pagine più buie per la città etnea. Un comune commissariato, paralizzato, invaso dai rifiuti, senza bussola.
Eppure gli elettori catanesi hanno preferito confermare la fiducia al centrodestra, mortificando il fronte di opposizione e il suo regista, l’attuale segretario regionale del Pd e deputato nazionale, Anthony Barbagallo. Non saranno le sue eventuali dimissioni ad aprire una nuova stagione politica nel partito democratico. Ma ostinarsi a non cogliere l’esigenza di ridare la parola al dibattito e alla riflessione, lasciando il timone del partito siciliano, sarebbe incomprensibile. Siamo ai numeri di una riserva indiana che vede i suoi confini arretrare sotto l’avanzata dei visi pallidi. È tempo di interrogarsi sul significato della rappresentanza politica, alla luce di una partecipazione al voto che continua a perdere elettori. Ma anche sulle chiavi di lettura che il partito democratico deve aggiornare per ricostituire la sua identità, dando forma e credibilità a un modello alternativo. Le dimissioni di Barbagallo potrebbero rappresentare l’introduzione per scrivere un nuovo capitolo. O almeno, un tentativo doveroso e responsabile.
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