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"Io, deputata all'improvviso". Da Messina alla Camera, ecco Maria Flavia Timbro

Il 7 giugno scorso la tragica morte di Guglielmo Epifani. Al suo posto alla Camera ora siede l’avvocatessa messinese di Art.1, che nel 2018 aveva affiancato Saitta nella corsa a Palazzo Zanca

Il suo “compagno di banco” a Montecitorio è Pierluigi Bersani. Il quale l’ha accolta a modo suo: offrendole da bere al bar («lui ha preso una birra, io ho preferito un po’ di frutta») e raccontandole i retroscena dell’iter che portò alla legge Basaglia, più di quarant’anni fa. Maria Flavia Timbro martedì scorso ha fatto il suo esordio da dodicesima parlamentare messinese di questa sua legislatura. Il suo primo giorno in Aula non poteva che coincidere con quello della commemorazione di Guglielmo Epifani: l’avvocatessa messinese, infatti, è subentrata allo storico sindacalista cigiellino, scomparso il 7 giugno scorso.

È successo tutto in poche ore, «crudele e sorprendente allo stesso tempo», dice la Timbro, appena tornata dalla sua prima settimana romana. «Ci si sente dentro un frullatore – confessa –, soprattutto con le modalità con cui è avvenuto tutto, qualcosa mai pensavo si potesse verificare, una notizia che non ti aspetti mai di poter ricevere. Un conto è arrivare in Parlamento dopo una campagna elettorale, un conto è che dopo tre anni e mezzo ti chiamano per dirti: da domani sei parlamentare. Una notizia crudele, la morte di Epifani, che al tempo stesso ti spiazza la vita e ti apre un’opportunità. L’ossimoro della vita, che da un lato toglie, dall’altro ti dà».

Ci racconti il giorno in cui le è arrivata la notizia.
«Io ero in macchina, ho ricevuto una telefonata: “Non so se è vero, Epifani ci ha lasciati”. Mi sono fermata per riflettere, mi ha chiamata mia madre che aveva sentito la notizia in tv. Sono stata venti minuti ferma a cercare di riordinare le idee. Prima il dispiacere, conoscevo Epifani, avevamo fatto campagna elettorale per lui. È stata una doccia fredda, una settimana prima aveva fatto un comizio bellissimo a Roma. E poi questa emozione contrastante, perché questo è un traguardo per chi fa politica ed è arrivato tra capo e collo».

E poi è arrivato il primo giorno in Parlamento...
Un’emozione grandissima, il Parlamento è un luogo sacro per chi fa politica. Il luogo nel quale si prova a trovare le soluzioni di cui il Paese ha bisogno. Quando sono entrata nel transatlantico mi sono guardata attorno, ho guardato il soffitto, e mi sono sentita addosso tutta la responsabilità del ruolo e anche delle persone che hanno percorso con me pezzi di strada. Il primo giorno, poi, è coinciso con la commemorazione di Epifani, un momento commovente. Ho avvertito tutta la solennità del luogo e del ruolo».

C’è un dettaglio, di queste prime ore in Parlamento, che l’ha colpita particolarmente. Che sa già che porterà sempre con sé?
«Intanto l’idea di essere seduta tra Fornaro e Bersani. Bersani è sempre stato un punto di riferimento, mi sono sentita protetta ma anche inconsciamente “arrivata”. E poi probabilmente la prima volta che mi hanno portata dentro quello che sarà il mio ufficio. Mi hanno dato il tesserino, vedi la tua faccia con scritto Camera dei Deputati e rimani spiazzata. La prima cosa che ho fatto in ufficio è stato guardare fuori dalla finestra: si vede la piazza del Parlamento, ma arriva molta luce. Rende l’idea del punto di osservazione, che hai ancora la possibilità di guardare fuori, mantenendo saldo l’obiettivo che non bisogna mai perdere. Proprio ieri ho partecipato ad una riunione nell’area nebroidea, la prima da parlamentare. Mi hanno chiesto di intervenire prima degli altri, io credo invece che a maggior ragione debba prima ascoltare tutti e poi parlare. Ascolto, rielaborazione e ricerca delle soluzioni: è questo il compito della politica».

Al ruolo di parlamentare è arrivata ricoprendone uno tutt’altro che secondario, nel suo partito, Articolo Uno: quello di responsabile nazionale legalità e la lotta alle mafie.
«È una delle cose di cui vado più orgogliosa. L’importanza di questo ruolo sta nel fatto che, oggi più che mai, quello della lotta alla mafia è un tema di cui non parla più nessuno. La pandemia ci ha dimostrato ancor di più come la mafia sia uno stato nello Stato, con un sistema di welfare alla persona ancor più capillare. Questo ruolo vorrò trasferirlo nel mio mandato parlamentare, per continuare ad accendere i riflettori sul tema. Non è una questione territoriale o regionalistica, per tutta una serie di fattori culturali ed economici, prima che politici. Abbiamo fatto una serie di interrogazioni, non ultima quella sulle corse clandestine. Temi che sembrano far parte di un arredo cittadino, esiste, tutti lo sanno, ci si è fatti l’abitudine, ma noi non vogliamo farci l’abitudine. Non è sufficiente l’intervento della magistratura, la politica deve affiancare la lotta alle diseguaglianze, che nei prossimi cinque anni, dopo la pandemia, saranno ancora più macroscopiche».

E poi c’è chi, come il sindaco di Milazzo, assimila gli ambientalisti ai mafiosi...
«Un’uscita assolutamente infelice, ma anche un fatto politicamente gravissimo. Chi rappresenta le istituzioni deve pesare ciò che dice, specie in una terra come la nostra, spesso vessata dalle ecomafie. L’uso delle parole e del linguaggio in politica è delicatissimo, chi riveste un ruolo istituzionale non dovrebbe abusare mai delle parole».

Una considerazione che spesso, come partito, avete fatto anche per l’amministrazione De Luca. Che valutazione fa, del suo operato fino a oggi?
«Credo che la città oggi viva un periodo molto delicato. Non è un segreto che io non condivida quasi nulla dell’amministrazione De Luca, molto distante dalla visione che avevamo nella nostra campagna elettorale. Messina è una città svuotata, svilita, in forte arretratezza. C’è chi parla nuovamente del Ponte come panacea di tutti i mali, ma credo che la città abbia ancora tantissime altre questioni aperte, dalle scuole alle infrastrutture alle società partecipate. Penso che la città non abbia avuto il rilancio che le era stato promesso».

Torniamo, allora, alla campagna elettorale. Quella del tandem Saitta-Timbro, con quel ruolo quasi di “co-sindaco”, più che di vicesindaco. Cosa non funzionò? E perché Messina non ha ancora avuto un sindaco donna?
«Si immaginò un percorso, affiancando due personalità della stessa provenienza politica ma con caratteristiche differenti. La competenza e la professionalità di Saitta, la passione politica e la freschezza di un personaggio come me. Provammo a rispondere ad un’esigenza anche di ricambio generazionale, più che all’idea uomo-donna. Non so se il problema quello di una città pronta o meno ad un sindaco donna, credo però che ancora, nonostante si racconti la necessità di vedere nei giovani nuove classi dirigenti, ci sia una certa diffidenza ad affidare ruoli delicati proprio ad una classe dirigente meno matura. Confido però che molte cose stiano cambiando, non escludo che la città, con un progetto solido, di rinnovamento, possa sorprenderci presto. Noi politicamente abbiamo iniziato a lavorare alla nascita di un campo largo, che contenga un insieme di lavori e punti sul ricambio generazionale. Quella del 2018 fu un’intuizione brillante, secondo me, ci sembrò che convincesse la città, poi le cose andarono diversamente, forse perché per un campo largo della sinistra servono percorsi più lunghi. A volte si finisce per badare più al contenitore che al contenuto, il lavoro che stiamo facendo adesso è costruire sulla base dei contenuti, anche a livello regionale».

Anche in questo caso, però, si è assistito ad un fenomeno frequente: finita la campagna elettorale, i candidati tendono a defilarsi dal dibattito politico locale, se non in rare eccezioni. Perché?
«Col mio gruppo provinciale abbiamo continuato ad intervenire nel dibattito locale. Forse non sono apparsa in prima persona, ma lavoro dentro una comunità politica che non si è mai tirata indietro. Sicuramente abbiamo scontato un po’ tutti due fattori: il primo, non avere dei ruoli politici, che non hanno un valore esclusivo, ma offrono lo strumento per poter intervenire in maniera più incisiva; il secondo la pandemia, che da un certo punto di vista ha impedito di fare politica in modo attivo, svolgere iniziative, manifestazioni di protesta o testimonianza, ha mutato la nostra possibilità di intervento politico. La pandemia ha riportato alla luce la centralità dello Stato, non come statalismo, ma come importanza dell’istituzione che deve sostenere il cittadino. E ci ha dimostrato che le istituzioni non erano pronte».

A rappresentarle in prima linea, le istituzioni, nella gestione della pandemia è il vostro segretario nazionale, il ministro della Salute Speranza.
«Certamente gestire questa fase è stato impegnativo sotto ogni punto di vista, per il peso delle responsabilità e delle scelte. Io credo che Speranza sia stato un ottimo ministro della Salute, perché ha gestito questa fase con equilibrio e con rigore. Ha dovuto fare scelte che da quando è nata la Repubblica nessuno aveva dovuto prendere, in primis contenere le libertà dei cittadini con il lockdown. Siamo stati il primo Paese d’Europa a fare queste scelte, il che testimonia quanto fossero opportune e ponderate. Di Speranza ho apprezzato l’altissimo senso delle istituzioni, si è dedicato totalmente alla pandemia, tralasciando l’opportunità di avere visibilità politica, anche rispetto a chi approfitta, nel dibattito politico, delle debolezze di chi è in difficoltà. Per me è stata una consolazione che ci fosse lui, in questo momento così delicato».

Si avvicinano di nuovo le campagne elettorali e il tema torna ad essere quello delle alleanze. In un momento storico in cui l’elettore può essere disorientato da un governo in cui dentro ci sono un po’ tutti.
«Il governo nazionale è un unicum che nasce da un gesto irresponsabile, quello di esporre il paese ad una crisi di governo nel pieno di una pandemia mondiale. E nasce dalla necessità di rispondere ad un appello del presidente della Repubblica. Rispetto alle alleanze che si stanno prefigurando nelle prime regioni in cui si va al voto, nel solco del campo largo del governo giallorosso, nascono perché credo che ci si sia resi conto che in questa fase politica, anche a livello europeo, nessuno si salva da solo. Le destre si sono fatte sempre più pressanti, chi ha un parametro di valori affini ha l’obbligo di lavorare insieme. Dobbiamo provare a costruire questo anche in Sicilia e nei comuni. Quello che manca davvero alla politica, e anche all’attuale amministrazione di Messina, è una reale visione. Chiedersi che città vogliamo costruire, che Sicilia vogliamo costruire. Anche il Governo Musumeci ha peccato di immobilismo, serve un’alternativa solida, non l’ennesimo frazionamento elettorale».

L’alternativa è il “vostro” Claudio Fava?
«In lui è forte l’idea di costruire un campo largo, sarà candidato solo se sarà il candidato di tutti. La sua discesa in campo apre il dibattito ad un anno di distanza dalle elezioni, non a tre quattro mesi, quando tutti si concentrano sul costruire le liste. Il merito di Fava è quello di aprire un confronto in una fase in cui ci consente di guardarci in faccia per chiederci chi siamo, cosa vogliamo essere ma soprattutto cosa vogliamo diventare».

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