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Riccardo Muti sul podio al Teatro di Taormina: oggi l'anteprima del Bellininfest

Il Maestro dirigerà l'orchestra giovanile Cherubini, da lui fondata nel 2014

Riccardo Muti

Riccardo Muti, nel suo vastissimo repertorio, è il direttore d'orchestra che più e meglio di ogni altro ha valorizzato i capolavori di Vincenzo Bellini in edizioni sceniche e discografiche di riferimento assoluto. Non poteva esserci protagonista più prestigioso per l'anteprima del Bellininfest, il cartellone itinerante che la Regione Siciliana promuove da quest'anno nel segno del Cigno catanese, in sinergia con le maggiori istituzioni teatrali e culturali siciliane. È davvero attrazione fatale quella che da sempre lega questo grande direttore alle partiture belliniane, di cui è da oltre cinquant'anni sommo interprete.

Il programma

Sarà la maestosa Sinfonia di Norma ad aprire il concerto sinfonico che mercoledì, alle 21.30, nella suggestiva cornice del Teatro Antico di Taormina vedrà il maestro Muti sul podio della "sua" Cherubini, l'orchestra giovanile da lui fondata nel 2004.
Il programma proseguirà con la Sinfonia n. 9 in do maggiore D 944 di Franz Schubert, pagina fondamentale del sinfonismo protoromantico. È trascorso quasi mezzo secolo da quando la storiografia tedesca – in testa Carl Dahlhaus – rilesse la storia di un secolo, quell’Ottocento destinato a infrangersi alle soglie della Prima Guerra mondiale, alla luce di due numi tutelari, Beethoven e Rossini, che ne indirizzarono le sorti in maniera profetica, se non ineludibile. Ma anche da altri, rigogliosi fermenti è connotata la stagione del Romanticismo, in una stratificazione di prospettive destinata a convalidare questa visione, ma al tempo stesso a valicarne i confini.

L’anteprima del Bellinifest, per esempio, accosta due pagine che, quasi contestualmente, prendono le distanze proprio dal canone delineato da questi compositori.

Capolavoro indiscusso di Vincenzo Bellini, “Norma”, al debutto in Scala la sera di Santo Stefano del 1831, s’incarica di acclimatare alla visione neoclassica del librettista, Felice Romani, gli eroici furori della fonte francese – la tragedia omonima di Alexandre Soumet, membro dell’Académie française – stemperandone i toni più esasperati. La Sinfonia dell’opera pare quasi anticipare gli slanci bellicosi dei Druidi, che all’alzarsi del sipario serpeggeranno nella «foresta sacra», dominata da «colli in distanza sparsi di selve», da «lontani fuochi» e soprattutto dalla luna, portatrice di una pace forzosa, forzata epperò da tutti segretamente vagheggiata, nella sfera pubblica come in quella degli affetti privati: il finale in «Maggiore», che subentra al sol minore d’impianto, è un folgorante approdo pacificatorio, subito travolto e sradicato dalla perentoria marzialità del primo tema.

Alla tragedia lirica belliniana Muti affiancherà l’ultima Sinfonia di Franz Schubert, che venne ultimata nel marzo del 1828 ma in realtà fu tenuta a battesimo postuma soltanto undici anni più tardi: Robert Schumann l’aveva rinvenuta tra le carte di Ferdinand Schubert, fratello del compositore, e l’aveva sottoposta all’attenzione di Felix Mendelssohn, che con l’orchestra del Gewandhaus di Lipsia si apprestava a compiere un’attenta opera di riabilitazione dei capolavori della tradizione musicale germanica.

Dalle colonne della «ZeitschriftfürMusik», Schumann ne avrebbe sottolineato due elementi di capitale importanza: il definitivo distacco da Beethoven, di cui pure viene esplicitamente citato l’Inno alla gioia nell’ultimo movimento; e soprattutto la «divina lunghezza», definizione che richiama quelle «melodie lunghe, lunghe, lunghe» in cui Giuseppe Verdi coglieva l’elemento forse più pregnante della drammaturgia del Catanese.

Per Schubert proprio la lunghezza diventa chiave di volta di una scrittura di straordinaria ampiezza, dall’organico (in cui figurano ben tre tromboni) alle campiture architettoniche (si pensi all’esposizione del primo movimento, per la quale si prescrive il ritornello): ma al contrario di Beethoven, il cui universo era permeato dal contrasto drammatico, qui prevale il principio dello sviluppo ciclico, a partire dal motivo enunciato inizialmente dai due corni, oggetto di inesauribili metamorfosi compositive. E questo richiamo del corno – che vibra «come se frammezzo all’orchestra si muovesse leggero un visitatore celeste», per dirla ancora con Schumann – diventerà l’eco sempre più lontana di una ricerca metafisica, di un viaggio senza meta che tende all’utopia dell’infinito.

Un appuntamento da non perdere, nello scenario impagabile del teatro taorminese, in questa estate di ripartenze per la cultura e lo spettacolo.

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