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“Quote rosa”, il femminile e l’asilo nido

Il tempo in cui non farà più notizia non è - com’era fino a ieri - indefinitamente lontano. Ma neanche, ancora, particolarmente vicino.
Una donna in una posizione apicale è, oggi, ancora purtroppo un fenomeno d'interesse sociologico, da raccontare in una chiave poco paritaria, quasi come una stupefacente eccezione. È la sensazione sgradevole appiccicata addosso a tutte le donne che infrangono il soffitto di cristallo: quella di aver fatto qualcosa d'incredibile, che rileva non per merito, ma per genere. Non è così, e si sgolano nel dirlo tutte coloro che ci arrivano, da Margherita Cassano, prima donna prima presidente della Corte di Cassazione, alle rettrici sempre più numerose, dalla presidente della Crui Giovanna Iannantuoni alle altre pioniere d’importanti Atenei. Alle prefette, amministratrici delegate, assessore. E sindache. Ma la conta delle "donne che" s’avvicina implacabile, con la festa delle mimose.
Che disparità, retaggi patriarcali e ignobili violenze siano sempre tra noi è una realtà dolorosa, da combattere però in maniera diversa, non con rituali o stupore, ma con asili nido e parità retributiva. E soprattutto senza il subdolo inganno delle "quote rosa", che antepongono il genere al merito, distraendo con l'alibi numerico. Sono servite, certo, a infrangere per legge l'inossidabile tabù della rappresentanza mista, quando l'esclusione femminile era un dettato di stampo normativo.
Ma ora è il momento di affidarsi solo al merito, che non ha colore né genere. E soprattutto è il momento di una rappresentazione che, appunto, "merita" parole appropriate e non benaltrismo o stereotipi, nemmeno linguistici.
Si esiste se si è chiamati per nome, e se esiste una parola per definire una donna, è una parola al femminile. È una regola grammaticale, e etica.
La parità è un equilibrio fra diversità non omologabili: il maschile non è il genere del prestigio, o non lo è più, e estendendolo indistintamente non si ottiene uguaglianza, ma si annulla proprio quella specificità che si vorrebbe difendere. Sarebbe bello se a comprenderlo fossero proprio le donne ai vertici, che spesso per prime stentano a "riconoscersi", indebolendo inconsapevolmente il consolidamento della parità.
Un aiuto, come sempre, proviene da qualcosa di oggettivo, scientifico: il dizionario Treccani, che lemmatizza le parole in ordine alfabetico e non più di genere.
Donna non è più il femminile di uomo, né la metà di altre persone.
Ma l'intero di se stessa.

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