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Il pasticcio degli esami da ripetere al “Galilei” di Spadafora: se un “non caso” assurge a paradigma

Potremmo parafrasare Shakespeare, <tanto rumore per nulla>, e chiuderla lì. Com'era, peraltro, ampiamente prevedibile: perché non si può chiedere a una commissione d'esame di prodursi in un sostanziale harakiri. Ma adesso che la sabbia si è adagiata sul fondo di un bicchiere agitato da acque limacciose, alimentate – fra l'altro e dolorosamente nella fattispecie – anche da quei putridi flussi di sentina che sgorgano dai social, talune riflessioni è legittimo avanzarle. E, sia chiaro, non saranno né in chiave buonista - perché non se ne poteva più degli inviti alla "serenità" e delle stantìe dichiarazioni di orgoglio individuali e di classe corredate da commenti di avvocati - né di matrice colpevolista. Perché in questa vicenda del “Galilei” - un “non caso” assurto a paradigma - ci sono solo sconfitti.

Dunque, dieci ragazzi con le rispettive famiglie sono stati tenuti in ostaggio per 5 mesi! Da un ricorso – non ne discutiamo la legittimità, ci mancherebbe: si è pronunciato un Tar, sicché se ne deve prendere atto – presentato dai genitori di una maturanda che si è supposto fosse stata svantaggiata dalle irrituali comunicazioni di una improvvida, ancorché premurosa, docente. Al netto delle motivazioni, la domanda che irrompe è: ma un 69 - voto “appellato” e poi riconfermato – quanto può lievitare anche in caso di clamorosa errata valutazione? Poco o nulla. E chi conosce l'architettura degli esami di maturità lo sa perfettamente. Quindi non sarebbe mutato granché. Pur riconoscendo sacrosante motivazioni fattuali e non solo di principio, i genitori che si sono rivolti al Tar avrebbero dovuto riflettere sull'opportunità di lasciare sul filo dieci ragazzi e relative famiglie. E pazienza, <non è da un calcio di rigore che si giudica un giocatore>. Questo ci dice, piaccia o meno, l'esito dell'esame-bis: uno stillicidio emotivo.

Quanto alla docente che ha interloquito via social sui canovacci da seguire durante la prova orale, è un modo di operare che si (s)qualifica da sé. Ma che nessuno si nasconda dietro il paravento dei facili moralismi: tutti i maturandi si aggrappano ai “membri interni” per ottenere sostegno.

Restano due aspetti su cui vale la pena sommessamente chiudere il cerchio - ma i giornalisti hanno anche il dovere di riflettere, anche se questo può non piacere a qualcuno - ed ecco il paradigma, ovvero la dimensione ampia del “non caso Galilei”: la deriva dei ricorsi per via giudiziaria che caratterizza il nostro Paese a ogni livello e in qualunque ambito; e il protezionismo – tutto italico - esercitato da genitori di ragazzi e ragazze che andrebbero tutt'al più accompagnati, senza troppi ombrelli e scorciatoie, lungo i sentieri della vita.

Che società è possibile costruire se si fa appello, anche nella dinamiche scolastiche, all'autorità giudiziaria e che corpo sociale ci ritroveremo tra vent'anni se ai ragazzi di oggi non si insegna a navigare anche in mare aperto? Esplorare quel mondo, tra ostacoli e sorrisi, che spesso si limitano a guardare dall'illusorio e ammorbante buco della serratura rappresentato da Tik Tok, Instagram e affini? Ecco un tema su cui anche e soprattutto la scuola farebbe bene a interrogarsi, compreso un non sottovalutabile aspetto: quanti docenti sono adeguati al ruolo e in grado di leggere le fragilità di una generazione che ha attraversato due anni di Covid, sta registrando due guerre tra Europa e Mediorente, che viene bombardata da notizie feroci che trovano echi sul web come sugli organi di informazione “certificati”?

Non sarebbe male regalare tre minuti di lettura all'elogio della sconfitta di Pasolini, affrancandoci – tutti – dalla necessità di imporre vittorie.

 

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