Dopo quel «Marat-Sade» niente nel teatro a Messina è stato come prima. Lo spettacolo, tratto dal testo di Peter Weiss (portato al cinema da Peter Brook), fu allestito cinquant’anni fa nella Sala Laudamo dal regista palermitano Beppe Randazzo, morto a 79 anni. Visionario, esigente e perfezionista come pochi (e autore di spettacoli dal successo internazionale come «Ubu re» con gli attori conciati come una palla), Randazzo, sotto l’egida del Teatro Struttura, allora presieduto da Pompeo Oliva e Magda Messina, nel 1974 aveva riunito una trentina di giovani messinesi, molti dei quali minorenni, in quello che oggi si chiamerebbe stage di preparazione allo spettacolo vero e proprio. Accanto a loro pochi professionisti: oltre al regista-attore, Enzo Vetrano e Kadigia Bove (seconda moglie del politico Achille Occhetto). Un lavoro meticoloso ed estenuante, con giorni lunghissimi di prove, alla ricerca sempre di un particolare in più, da aggiungere o da togliere. Il lavoro si svolge nel manicomio di Charenton, dove fu internato de Sade, e propone una disputa filosofica e politica tra il marchese e Marat. Attorno, controllati dal direttore, i ricoverati che entrano ed escono dai personaggi per proporre le loro personali evidenze della malattia mentale (non credo che sia un caso che di quei ragazzi due sono diventati psichiatri e uno psicologo). Nella versione di Randazzo la scenografia (firmata da Mino Bruneo, Massimo Lo Curzio e Pucci Sorrenti, costruita dai fabbri Zappia) prevedeva gabbie laterali che dal palcoscenico correvano lungo tutta la sala Laudamo e, una volta chiusa la porta d’ingresso, era davvero difficile stabilire se a essere reclusi erano gli attori-pazienti oppure gli spettatori-forse sani, in un’intensità crescente di emozioni forti. L’iter fu difficile, la prima continuamente rinviata perché Randazzo era tormentato da nuove idee. Si debuttò finalmente l’8 gennaio 1975 ma si rischiò che tutto andasse all’aria a causa di uno scontro pomeridiano, molto concitato, tra Magda Messina e il regista. Poteva essere la fine, invece tutto funzionò alla perfezione e il successo, alla prima come nelle repliche, di fronte a una messinscena che scardinava tutto ciò che fino a quel momento era stato visto a Messina (e non solo), fu totale. Di quel gruppo di esordienti, molti hanno continuato la carriera artistica con lusinghieri successi: Raffaella D’Avella, Antonio Lo Presti, le gemelle Ester e Maria Cucinotti, Amy Pollicino (scrittrice, nuora di Claudia Cardinale), Alberto Simone (regista, genero di Nino Manfredi), Donatella Venuti, Brunella Macchiarella. Recitava anche Bianca Stancanelli, diventata poi nota giornalista. C’era nel gruppo Donatella Maiorca, destinata alla carriera di regista. Le musiche erano affidate a Beniamino Ginatempo, Giancarlo Parisi e Pino Patti. La notizia in più ci viene da Antonio Lo Presti: «Nessuno lo scrisse, forse perché si era aggiunto a lavori in corso, ma il direttore del manicomio era interpretato dal poeta, drammaturgo e attore palermitano Franco Scaldati». E aggiunge: «Randazzo fece un mirabile lavoro sul comportamento, sul confine tra normalità e follia. Un maestro indimenticabile che ci ha lasciato molto». E che ci mancherà.