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Quell’ “arto fantasma” che duole come il lutto non elaborato. Il ricordo di Giampilieri per il gran finale del Cortile Teatro Festival di Messina

Ci sono perdite che è difficile, forse impossibile, metabolizzare se accadono senza un perché, e continuano a scavare in chi resta un vuoto che diventa voragine. E scava nelle parole, nei ricordi, nei sentimenti di chi ha perso una persona cara e, dopo molti anni, ancora, si interroga sulle ragioni facendo i conti con le conseguenze, «L’arto fantasma», spettacolo ideato, scritto e diretto da Michelangelo Maria Zanghì, originario di Patti, che lo ha portato in scena assieme ad Alessio Bonaffini e Nunzia Lo Presti, in una produzione della Compagnia di San Lorenzo, a chiusura della XIII edizione del Cortile Teatro Festival.

Nasce quindi da un’esigenza forte lo spettacolo che, dopo l’applaudito debutto al Festival di Tindari, ha suggellato una rassegna, nata da un’idea di Roberto Zorn Bonaventura (che ne è il direttore artistico), Giuseppe Giamboi e Stefano Barbagallo, organizzata da Il Castello di Sancio Panza, insieme con il Comune di Messina e con il sostegno di Latitudini, rete di drammaturgia siciliana, che ha avuto anche quest’anno il merito e la capacità di unire, attraverso la parola drammaturgica, generazioni differenti di spettatori, sviscerando temi e questioni e aprendo spazi inaspettati al teatro.

Come il promontorio più a nord della Sicilia, fra i vigneti e uliveti della tenuta Rasocolmo, che martedì ha fatto da suggestivo palcoscenico al racconto di Zanghi.
Valigie e borse accatastate a formare una piramide e a contenere le vite di chi va e di chi resta, e poi un racconto spezzato, che scava nei ricordi e nel fango che il primo ottobre del 2009 portò via 37 vite e molte altre ne condannò al dolore, perenne, senza pace. L’alluvione che quell’anno colpì Giampilieri, Scaletta Zanclea, Molino, Altolia e altri villaggi della zona sud della città dello Stretto è una di quelle tragedie italiane dimenticate, una tragedia con sole vittime e nessun colpevole.

Per ricordarla e toglierla dall’oblio, per provare a raccontarla attraverso la parola drammaturgica e fare di un dolore personale una narrazione universale, Zanghì ha deciso di dare voce ai sentimenti di chi resta, a quelli di un figlio e di un padre. In scena troviamo allora Elio (Bonaffini) e la sua passione per il calcio, Fortunato (Zanghì) che ama dipingere ma si lascia sprofondare dopo la morte della figlia, Agata (Lo Presti), rappresentante di libri e madre amorevole di Elio. I tre conducono lo spettatore in un viaggio talvolta lento e frammentato, ridotto a brandelli così come le tre esistenze segnate in maniera insanabile dalla tragedia infinitamente personale che sconta anche l’abbandono e la lontananza di istituzioni e opinione pubblica. Chi resta deve fare i conti con il senso di mancanza e di vuoto, come chi percepisce ancora presente una parte del corpo che non c’è più, “l’arto fantasma” del titolo, avvertito da Elio, che cova una rabbia sorda che esplode solo in alcuni frangenti nei quali si rievoca la tragedia e le sue assurde conseguenze. Rabbia e abbandono, senso di vuoto e rassegnazione ma anche un barlume di speranza che si palesa nella vita che continua e che consegna allo spettatore un messaggio finale, nella consapevolezza che al ricordo, grazie al teatro, si può unire anche uno sguardo verso il futuro.

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