Coincidenze e conseguenze. Volete sapere quando Paolo Sorrentino ha deciso di volere fare cinema? «Quando ho visto “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore. È curioso che mi abbia spinto verso il cinema un film che ha vinto l’Oscar, e che molti anni dopo sia passato anche io da quel punto lì». Ricordate, no? Era il 2014 e «La grande bellezza» raccontata da quell’occhio napoletano che aveva reimmaginato Roma per tutti gli occhi del mondo, conquistò gli americani. Ieri sera Sorrentino è stato premiato al Gala con il Taobuk Award e il 24 ottobre uscirà «Parthenope», con delle anteprime a partire dal 19 settembre, ma solo a mezzanotte: «Una trovata del nuovo distributore che mi sembra bellissima. Magari non per me ma per i ragazzi».
Lei preferisce dormire?
«In realtà sono sempre stato insonne».
C’è un rapporto tra l’insonnia e la sua immaginazione?
«Non so neppure se ho un’immaginazione, però, svegliarmi presto al mattina mi aiuta a lavorare».
In Parthenope c’è Napoli, tanta, ma sembra un film meno autobiografico rispetto a «È stata la mano di Dio».
«I film sono sempre autobiografici, a volte, però, l’autobiografia si camuffa, a volte la si rende esplicita. E non riguarda solo quello che si è vissuto, ma anche ciò che avresti desiderato vivere, ben più potente. Parthenope è un film molto semplice, sul ricordo della giovinezza, sulla vertigine della gioventù, quella che ti fa credere che tutto possa accadere».
Lei è considerato un regista di talento. Come si conserva il talento?
«Non credo nel talento, quella cosa che uno possiede in maniera innata e che sgorga sotto forma di ispirazione. Un falso mito. Credo, invece, un individuo si ritrovi ad avere un suo mondo interiore, anche un po’ atipico rispetto a quello di altri, quindi degno di essere raccontato. Questo mondo interiore va coltivato ogni giorno. E io lavoro costantemente, anche quando chiacchiero con mia moglie che capisce sempre che ho la testa altrove. Il mio lavoro consiste nel costruirmi una realtà parallela a quella quotidiana, quella vera. Io penso, leggo, guardo film. Anche se meno di un tempo».
Quanti libri e quanti film in un mese?
«Tre libri al mese, film ancora meno. Quando giro non amo vedere film di colleghi: se sono belli mi deprimo e penso che il mio sia brutto. Se non mi piacciono mi esalto e credo che il mio sia un capolavoro».
Quanto è stato influenzato dal cinema del passato?
«Moltissimo, soprattutto da quello degli anni Novanta, avevo vent’anni e andavo in sala tutti i santi giorni. Spike Lee, Tarantino, i fratelli Coen, Scorsese, David Lynch. Loro mi hanno formato perché quella era anche la loro migliore stagione».
Tutta una generazione di registi americani, indipendenti. E maschi. E le donne?
«Jane Champion. Non amo invece Kathryn Bigelow, e neppure il suo ex marito James Cameron».
Il rapporto con il tempo che passa.
«Sono passate le palpitazioni del decennio tra i 40 e i 50 anni, si sono ridotte le aspettative e la necessità di provare certe emozioni già vissute. Subentra una maggiore serenità. Deprimente ma rassicurante».
Porta al dito un anello con l’effigie di Maradona…
«Un regalo dei miei figli. È difficile per me parlare di lui perché ha rappresentato tante cose. Per me è una semi divinità».
Il sesso nei suoi film…
«Non mi interessa. Preferisco quello che c’è attorno: la seduzione, l’erotismo, i rapporti di forza sottilissimi fra le persone. L’atto finale è poco interessante. Ginnastica perpetua».
Si sente «L’uomo in più» del nostro cinema?
«Non mi sento migliore di altri. Mi sento che faccio quello che mi piace fare, così come i miei colleghi fanno quello che a loro piace fare. Mi trovo più a mio agio a perdere».
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