Tano Santoro è un assetato, un assetato sano. Il pittore siciliano, classe 1940, nato a Naso, nel suo luminoso studio di Milano, nel vitalismo della Chinatown del capoluogo lombardo, esprime ogni giorno la sua sete inesausta di creatività, di voglia di andare sempre oltre quel limite visivo che ha appena raggiunto. La sua pittura si esprime con segni frastagliati alla ricerca continua di nuovi equilibri cromatici, ma anche di rapporto tra segno e spazio, potremmo dire di vuoti e di pieni.
Il suo realismo iniziale (parliamo di quando ventenne lasciò la Sicilia sulle orme di Tono Zancanaro e Giuseppe Motti, conosciuti a Capo d’Orlando, allora sede di un prestigioso premio per le arti figurative), è diventato con gli anni qualcosa che sempre più si è allontanata dalla realtà che appare ai nostri occhi per far diventare immagine ciò che è dentro di noi e che non appartiene al nostro senso della vista, ma a qualcosa che molto più ha a che fare con ciò che chiamiamo mente e spirito.
È un’elaborazione inelaborata della natura (la contraddizione è solo apparente), un pensiero che diventa materia senza tuttavia avere una vera forma, un sogno quanto mai reale: ha la capacità di contenere tesi e antitesi e di dimostrarle ambedue, proponendoci una natura quanto mai astratta, ma che finiamo per riconoscere come tale, nella sua essenza.
Accade perché nel suo percorso fittamente reticolare, sulla tela anche il segno più piccolo diventa determinante mentre pure la singola goccia materica ci segnala il nostro ruvido quotidiano, e il colore - mai accesso e mai spento - si allontana sempre più dalle tonalità mediterranee ed eppure nello stesso tempo le contiene. È incredibilmente stretto il crinale su cui Santoro fa camminare la sua sempre nuova pittura, in questo ultimo periodo priva di tracce di presenza umana; è il pensiero che fluttua e ci invita a entrare in questo vortice espansivo che ci appartiene, specie se non cediamo troppo al “tutto pronto” che il mondo digitale ci apparecchia ogni giorno di più.
A pensarci bene, è una scialuppa di salvataggio quella che ci offre Santoro con la sua arte: il richiamo forte alle nostre capacità umane, quelle che ci sembrano nascoste e che invece possono essere amplificate dall’estro e dalla fantasia. «Le mie opere – mi dice – propongono un niente che contiene tutto». Lui scompone il tutto, va alla ricerca dell’origine (mi è già capitato di definirlo pittore-filosofo) e non si ferma neppure quando sembra averla trovata, pilota ed esploratore di un divenire dal passo eterno. Una ricerca tormentata e nello stesso tempo felice perché esprime pienamente la voglia dell’artista di non autoriprodursi (per molti pittori una comodità professionale), ma di essere sempre un passo avanti a sé stesso.
Santoro è notoriamente molto apprezzato anche nel campo delle incisioni, dove il suo tratto sicuro è capace di grandi schemi perfettamente equilibrati, come di spazi piccoli finemente “occupati”. Le sue acqueforti, ma anche acquetinte e puntesecche, echeggiano temi antichi e moderni, ripresi con accenni di figurazione che ne fanno un corpus originale e caratteristico, nonostante i diversi punti di partenza. Qui le figure umane prendono forme mai compiute, anche quando potrebbero sembrare perfettamente delineate. Può essere la testa una sorta di non finito, o anche i piedi che sfumano prima di raggiungere terra. Spesso in passato queste figure sono apparse nella sua pittura, ora ci tocca immaginarle e, viste ravvicinate nel raccoglimento della sua casa-studio, si completano fino a creare un mondo che, per quanto legato alla visione dell’artista, finiamo con il riconoscere come il nostro.
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