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Febbraio 1783, Goethe e il terremoto in riva allo Stretto di Messina

Il 5 febbraio 1783, alla diciannovesima ora circa, cioè 48 minuti dopo mezzogiorno, “Messina cadde in un baleno, e fu tutt’uno il vederla in piedi e vederla interamente rovinata. Uno spaventevole rombo, o fragore, somigliante allo sparo di un tuono, è stato foriero di un orribile tremuoto”. Così raccontò l’abate Alberto Corrao in “Memoria sopra i tremuoti di Messina accaduti in quest’anno 1783”. Wolfang Goethe, che era un sensitivo, percepì quel sisma, in una notte stranamente quieta e afosa, a Weimar. Si desto all’improvviso e chiamò il domestico. “Senti”, gli disse, “è avvenuto un terremoto…”.

Ricorrendo ora quella data funesta, vogliamo citare “Cartografia di un terremoto: Messina 1783”, volume fondamentale apparso nel 1988, autori Nicola Aricò, ed Enrico Bellantoni, Giovanni Molonia e Giuseppe Salemi. Si tratta di un “numero speciale” della rivista internazionale “Storia della città”, di Electa, pubblicato in occasione dell’ottantesimo anniversario del terremoto del 1908. È un volume sapientemente curato, che consiste essenzialmente “di una cartografia precisa e analitica delle trasformazioni urbanistiche di Messina negli ultimi due secoli”. A partire, appunto, dal terremoto del 1783.

“Non credo di cadere in fallo”, considerava Corrao, “chi fisserà la durata della scossa allo spazio di tre minuti all’incirca… Tutti i cittadini videro ben tosto morte che sovrastava loro sul capo”. Alla prima, seguirono diverse altre scosse di varia intensità…”. Grida e lamenti in ogni angolo della città, ovunque sepolti vivi imploranti soccorso”. Nella spiaggia del porto di Messina, ma anche nelle campagne, si formarono estese fenditure. Il suolo s’abbassò specialmente intorno al porto; nell’area falcata, presso la Lanterna, dal terreno aperto in più punti si levarono intensi getti d’acqua; e s’allargavano intanto le piaghe del saccheggio. Danni immani anche in Calabria, soprattutto tra Pizzo e Siderno.

Bisognò attendere a lungo perché la calma tornasse nelle zone colpite. Infatti i terremoti continuarono a infierire, “sovvertendo le terre medesime”, scrisse Pietro Colletta in Storia del reame di Napoli, “portando allo scoperto materie e uomini giorni avanti sotterrati”. La Natura sembrò infine placarsi due anni dopo quel cupo 5 febbraio.

Si contarono intorno a trentamila vittime; non troppe se si considera la vastità del territorio devastato. Poiché il sisma non sorprese la gente nel sonno, come invece sarebbe avvenuto nel 1908. Il disastro prostrò Messina, e la ripresa fu lenta e laboriosa; malgrado le cure - commentava Corrao - di re Ferdinando Borbone, del Prelato nostro zelantissimo, del Senato… nella città nostra rovinarono, o rimasero seriamente lesionati, tra l’altro, il Palazzo Reale, la Palazzata, il Palazzo Arcivescovile, il Grande Ospedale, il Duomo e il suo gran campanile, i Reali convitti. Ed ancora, molte chiese e monasteri, pregevoli dimore private, opere di eminenti scultori e architetti.

Quanto agli interventi pubblici iniziali, Andrea Gallo, erudito messinese, in una lettera inviata a un monsignor Gavelli, compilata “due mesi e dieci giorni dopo i tremuoti”, decisamente smentisce il buon abate Corrao.

“In Messina”, dichiarava Gallo, “dietro il terribile flagello del 5 febbraio, che interamente diroccò le fabbriche quasi sino ai fondamenti, si è per due mesi vissuto e, vivesi ancora, nel disordine, nella confusione e nella miseria… Niente di soccorso, né dai propri Paesani, né dagl’incaricati dal Governo si è veduto finora porgere a questi miserabili, né un solo soldo si è loro distribuito. Quel poco di vettovaglie che mandò il vescovo di Catania parte restò in potere di chi doveva dividerla e parte fu data a chi meno aveva bisogno… Giacciono i cittadini in vili tuguri”.

Le rimostranze del Gallo non finiscono così, ma noi qui ci fermiamo. Non prima però di aver citato Augusto Placanica, autore dell’aureo volumetto Goethe tra le rovine di Messina. “Quel terremoto”, vi si legge, “portò l’intellettualità europea del tardo Settecento a misurarsi con la propria coscienza e con la propria tradizione di pensiero”.

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