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"Super Santos", storia laica d’un culto religiosissimo

Applaudita prima nazionale dello spettacolo di Donato Paternoster al Cortile Teatro Festival di Messina. Un calciatore che si farà frate, attraversando l’affresco dei nostri tempi.

C’è la Divinità, c’è il Credo. C’è la Regola, c’è la Fede: le masse adoranti e la personale, intima fiaccola. Ci sono i Miracoli. C’è il Calice, anzi la Coppa, per il Rito. Insomma, è il calcio. Anzi, la religione laica del calcio come la conosciamo bene, anche quando è fin troppo mescolata a cosacce, interessi e denari per cui ogni tanto ci augureremmo che qualcuno cacciasse i mercanti dal tempio, anche se poi continuiamo a stare sugli spalti e gridare il terribile amore del tifoso credente e praticante. E pensate a quegli undici, il Verbo che si fa Carne, carne da pallone, chiamati a compiere i miracoli e celebrare il sacro. Come fanno anche i ragazzini per strada, pensando alle divinità, sognando di farcela, di diventare un Maradona, magari calciando un “Super Santos”. Un nome perfetto per un culto assoluto, tanto che Donato Paternoster (nomen omen), attore e drammaturgo, ne ha fatto uno spettacolo, “Super Santos (Uno che ce l’ha fatta)”, la cui prima nazionale è stata applauditissima nello spazio benemerito del Cortile Teatro Festival di Messina, guidato da Roberto Zorn Bonaventura.

Lo sappiamo, la storia del calcio è costellata di semidei ed eroi, ma sono molti, molti di più i «calciatori tristi che non hanno vinto mai», o peggio, i calciatori che sembravano grandi promesse, e poi «hanno appeso le scarpe a qualche tipo di chiodo» (per citare un grande filosofo moderno, Francesco De Gregori). Il protagonista di Paternoster – che si presenta in tuta e scarpini, con la borsa e la “Gazzetta dello Sport”, su un fondale di prime pagine squillanti che celebrano imprese e campioni – è uno di quelli: un inizio folgorante, la serie A, i premi, e poi il declino, le serie minori, l’oblìo. Eppure, la sua vicenda finisce in un altro modo... in un altro campionato. È la storia, vera, d’un calciatore che diventa frate francescano, passando da Regola a Regola, da Credo a Credo. E la forza dello spettacolo è questo racconto doppio che s’intreccia e si fa affresco del nostro tempo, tracciando con mano delicata e felice una vicenda personale di incantamenti e prove che riflette la storia di tutti noi. Tutti riconosciamo le telecronache del passato, tutti ricordiamo quel rigore fallito che ci costò il mondiale (che le sconfitte affratellano pure più dei trionfi), come ricordiamo le Torri Gemelle, o i giorni assurdi del lockdown. Paternoster – con un’adesione passionalmente “fisica” al personaggio – celebra, con una coppa che è un calice, o viceversa, l’eucaristia-condivisione, quella comunione dell’umano che non è blasfemo riconoscere nella fede appassionata che può rendere “sacro” un campetto di periferia esattamente come un grande stadio internazionale. Paternoster accumula simboli, ci spiega il 4-3-2-1, che è lo schema “Albero di Natale”, anzi presepe, col pallone che diventa stella cometa e bue e asinello che fanno i difensori; ci racconta il campionato di Francesco d’Assisi, l’unico capace di vincere arretrando, di dire ai vincitori che chi vince non sa quello che si perde (e la stola con la scritta «Che vi siete persi» ci richiama l’altro miracolo, rinnovato di recente, a Napoli). E alla fine, quando recita il suo Credo, siamo d’accordo con lui: «Credo che Maradona e San Francesco si siano parlati». Oh, chissà quanto. Lunedì e martedì concluderà la prima parte del festival «La grande menzogna» di Claudio Fava, con David Coco, su Paolo Borsellino.

Foto di Rino Labate 

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