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Il Teatro sarà sempre in... Divenire. Parla l'attore e regista messinese Giampiero Cicciò

Il successo del Festival che dirige è l’occasione per una discussione ad ampio raggio sulla cultura del palcoscenico e sullo stato di salute dello spettacolo

E’ uno degli attori della sua generazione più talentuosi, e da tempo è diventato anche regista. Ma il teatro per intero è la sua passione e la sua missione, e il bel Festival inDivenire (un progetto di Alessandro Longobardi nato nel 2017 e giunto alla quarta edizione), chiuso ieri con grandissimo successo, di cui è stato direttore artistico e infaticabile animatore, ne è una delle prove. Messinese e siciliano attaccatissimo alla sua terra, ma cittadino e artista del mondo, Giampiero Cicciò – formatosi con Gassman e poi in scena con registi come Cobelli, Tiezzi, Barberio Corsetti – ci parla del teatro, del festival, del futuro. Perché tutto è... in divenire, ma dobbiamo governarlo, volerlo, immaginarlo. E ci vuole molto coraggio e molta perseveranza, oggi. Ma chi crede nella Parola può farcela.

«InDivenire» forse è uno dei nomi più belli che esistano per un festival: spiegacelo.
«Son contento che piaccia questo nome. L’ho scelto dopo averci pensato a lungo. Uno spettacolo teatrale, al contrario di un film, è sempre in divenire. Per farti un esempio, anni fa in tournée con Troilo e Cressida di Shakespeare con la regia di Giancarlo Cobelli, io ero Pandaro, dopo circa due mesi di repliche ho avuto un’intuizione su una battuta che credevo non centrale ai fini della comicità del personaggio e invece dal giorno successivo la risata del pubblico su quella battuta bistrattata era ormai matematica. Uno spettacolo, i personaggi si trasformano e crescono ogni sera. In questo festival le compagnie devono inviare un progetto inedito, in divenire, quest’anno ne ho ricevuti 198 e ne ho scelti sedici che andranno in scena in forma di studio di trenta minuti. il progetto ritenuto migliore da una giuria composta da critici, registi, attori e autori, grazie al Premio inDivenire diverrà uno spettacolo in forma completa. Ma anche allora, ogni teatrante che si rispetti, non potrà fare a meno di considerarlo, ad ogni replica, in divenire».

Il festival è nato e ha cominciato a crescere proprio poco prima di un evento epocale, per il teatro e lo spettacolo tutto: la pandemia. Tutto è ripartito ormai da tempo, ma le ferite ci sono ancora. E si sommano (perché non dobbiamo scordarcene) ai limiti e ai problemi precedenti di tutti i mondi della cultura (perché il teatro non finirà mai ma i soldi, gli spazi, le energie possono finire). Qual è la situazione adesso, e cosa pensi si dovrebbe, potrebbe fare?
«La situazione, come dici tu, non è rosea. Ma bisogna avere coraggio e idee. Per quanto riguarda il mio ambito, bisogna creare dei rapporti tra i teatri, fare coproduzioni che permettano ad uno spettacolo di avere quelle risorse necessarie per non farlo nascere e morire in un’unica città. Il rischio altrimenti è quello di produrre teatro di bassa qualità, solo per fare cassa, magari con degli attori senza talento chiamati sulle scene perché noti in televisione e quindi di richiamo. Ma il pubblico non è stupido e puoi fregarlo una volta. Nessuno col tempo toglierà più le pantofole per uscire e andare a teatro se il teatro non è arte, intrattenimento, certo, divertimento, ma anche lo specchio imprescindibile che è da secoli, specchio dei nostri baratri, delle nostre storture, delle nostre passioni. Ridere e commuoversi tutti insieme, attori e spettatori, in questo antico rito collettivo è un privilegio che neanche Netflix potrò toglierci. Ma Netflix e simili fanno anche progetti di altissima qualità. Ed è solo con le armi della qualità che il pubblico spegnerà il televisore, rimanderà l’andata in pizzeria o al cinema per venire da noi».

L’amore per la parola è la tua cifra, di individuo, di intellettuale, di artista. Oggi, che pure viviamo in un mondo pieno di parole che scorrono, cosa possiamo fare per onorarla e farla vivere?
«Non parlando mai a vanvera. Nel mio settore, sul palco o negli uffici della produzione e dell’organizzazione. Non usando slogan ma poesia, non credendo che il pubblico si possa prendere in giro offrendogli un teatro fasullo già dimenticato mentre si ordina la pizza margherita di cui sopra. Di uno spettacolo bisogna far poi parlare. E come si fa? Portando in scena comicità alta, grandi autori, anche attori noti, sì, ma di talento. Che sappiano che la Parola va proferita con sincerità, con mestiere, come fosse un messaggero di cultura e di intrattenimento alto e non per far passare una seratina scaccia pensieri. Per quello ci sono gli show in tivvù del sabato sera. A teatro si va per ridere, sorridere, pensare e commuoversi al punto che quella serata resterà nel nostro cuore».

Una domanda su Messina, in cui il teatro sta avendo vita complicata. Tu, se potessi inventartela, che stagione, o che formula, regaleresti alla città?
«Bisogna ospitare e produrre solo spettacoli di qualità. Torno su questa parola. E poi vorrei che il pubblico messinese scoprisse che ci sono dei talenti nati nella nostra città che oggi vivono e lavorano a Milano, Roma, Genova… e che non hanno mai calcato quel nostro meraviglioso palcoscenico. Quindi l’idea migliore sarebbe quella di fondare una compagnia stabile con coproduzioni attorno alle quali possano ruotare tanti nostri artisti, ovviamente diretti soprattutto da riconosciuti maestri del teatro italiano con attori celebri e non celebri ma necessariamente dal talento riconosciuto. Anche non messinesi, ovviamente».

I tuoi progetti in… divenire.
«Dopo questo Festival, dal 7 marzo riprenderò al Teatro Basilica di Roma “I miei occhi cambieranno” di Celeste Brancato con protagonista Federica De Cola e poi sto elaborando un progetto laboratoriale rivolto ai detenuti nel Lazio. Fare teatro con coloro che stanno scontando il carcere, può fornire un'opportunità per esprimere la parte migliore di se stessi e per essere ascoltati, cosa che può contribuire a ridurre la loro condizione di isolamento ed emarginazione. La nostra Costituzione parla del carcere come luogo rieducativo. Insomma, è il teatro in sé il mio “progetto”, nel suo ruolo sociale, fornisce uno spazio per la riflessione, l'espressione e per esaltare il senso di Comunità».

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