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"I siciliani", una parabola universale tra realismo e poesia

Ninni Bruschetta e Cettina Donato sono ormai diventati un sodalizio artisticamente felice

Raccontare con suoni, poesie, immagini la propria terra lo hanno fatto certamente in tanti. Ma Ninni Bruschetta, filosofo del linguaggio, è più di ogni altro legittimato a vivere le proprie avventure iconiche avendo dalla sua una sicura sensibilità, oltre a un non comune bagaglio tecnico, di competenze e di esperienze.

Una passione narrativa, quella espressa dall'attore, regista e sceneggiatore messinese, che in anni recenti si è coniugata con le composizioni e gli arrangiamenti della pianista Cettina Donato.

Un sodalizio artisticamente felice, avviato con il successo di “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava e proseguito - dopo l'incisione dell'omonima suite di brani e preludi uscita per AlfaMusic e le tante repliche nei palchi di tutt'Italia - con “I Siciliani. Vero succo di poesia”, messo in scena al Vittorio Emanuele, nell'ambito della stagione concertistica della Filarmonica Laudamo, con un combo jazz e un ensemble dell'orchestra del Teatro.

Una visione della Sicilia mai oleografica, quella disvelata dai due straordinari “cantastorie”, che ambisce invece a proporsi come storia più alta e più ampia di una umanità che si fa carico di tutto il suo patrimonio di sentimenti, passioni e dolori, degli errori e degli orrori dell'amore.

Una parabola “universale”, tra realismo e poetica della memoria, in cui si dimostra come sia possibile armonizzare generi artistici solo in apparenza diversi, a conferma - qualora ce ne fosse ancora bisogno - dell'universalità del sentimento e del pensiero umano riflessa attraverso i versi e il pentagramma.

A sottolineare questa volontà narrativa c'è la felice intuizione di colorare i testi con i suoni, quindi. Ma non si tratta di semplice commento, di un'appendice di arredamento, ma di una stretta simbiosi, con identica passione, partecipazione, sensibilità, ma secondo le diverse poetiche.

I testi vivi e pregnanti di Caldarella, attraverso la versatile e incisiva interpretazione dell'attore e regista messinese, fanno sì che l'idea di storia “regionale” perda tutta la sua collosa epidermide folklorica o didascalica configurandosi invece come storia universale del sentimento e delle passioni, che si occupi del miserabile come del sublime.

Brava la Donato per la costante attenzione per la chiarezza melodica delle composizioni; ma anche nel considerare organici della tradizione musicale europea e di quelli di impronta jazzistica, strumenti a fiato e a corde, non relegabili in sezioni con ruoli distinti, ma piuttosto meritevoli di pari dignità e potenzialità, nell'intrecciarne in modo inscindibile l'espressività in un ben ordito tessuto di ritmi e timbri.

E se anche qualche episodio solistico sì è rivelato sì di sincera esuberanza ma allo stesso tempo un po' ridondante, tutti i musicisti (con menzione lusinghiera per il lavoro accorto e preciso della sezione degli archi e il solido perno ritmico assicurato dal contrabbassista Dario Rosciglione), hanno espresso una tecnica ben adeguata alle finalità del progetto.

Nell'esibizione percorsa da variegate scene corali e individuali, suggellata da ben tre fuoriprogramma, si segnala la rilettura di Amandoti, tema di Giovanni Lindo Ferretti (già voce dei CCCP), la coinvolgente tensione di Alcol, su prosa di Antonio Caldarella, l'intensa Ninnananna che Cettina Donato ha scritto in omaggio alla madre, il caldo appeal della vocalist Celeste Gugliandolo nell'interpretare un intelligente e rispettosa ripresa di “Vitti 'na crozza”, fin troppo abusato (ed equivocato) tema di forte denuncia, di duro lavoro e sofferenza. Un lavoro riuscito, insomma, di un duo inventivo e coerente, che sa essere attuale pur nel rispetto di forme consolidate e che, soprattutto, ha qualcosa di sincero da raccontare.

 

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