Mentre l’Etna ricopriva Catania di cenere nera, al Teatro antico di Taormina David Grossman, uno dei più amati interpreti della letteratura israeliana, ricopriva gli spettatori dell’incontro organizzato da Taobuk di parole al sapore di pacatezza, di buonsenso, di pace, sollecitato dalle domande del direttore di Repubblica Maurizio Molinari. Il suo “shalom” va immediatamente in circolo, lega tutti, sprigiona applausi. Si comincia dalla pandemia: «Improvvisamente ci siamo resi conto che noi siamo fatti della stessa materia degli altri, abbiamo subito assenze e mancanze e sopportato una sensazione di claustrofobia. Adesso ci ritroviamo a 4/5 mesi dal termine della campagna vaccinale, Israele è stato il primo paese al mondo a ultimare le somministrazioni sull’intera popolazione, e cominciamo a trarre le prime conclusioni, a capire cosa ci aspettiamo tutti da questo “dopo”. In tanti s’interrogano sul bisogno di aria nuova, sia sul lavoro che in famiglia. Domande che vedo come un’opportunità. Ma anche un po’ terrificanti». Di nuovo in pista con la forza di dimenticare e l’energia di ricominciare. Da qualche punto fermo: «Troppe ideologie ci imprigionano, ci paralizzano come se fossimo congelati. Succede tra le persone, figuriamoci tra nazioni. Si dovrebbe mischiare, fluidificare: altrimenti, intrappolati in situazioni da decenni, non si vede mai una via d’uscita, le idee si cristallizzano. Tutte le nazioni hanno una storia mitologica legale e ufficiale sulla loro creazione, tutte si sentono eroiche nell’avere creato un istinto nazionale, i nemici sono demoni. Invece dovremmo cambiare storia, modificare l’approccio con la realtà e l’identità, trovare nuove formule, più flessibili, per includere nella nostra storia anche quella dei nostri nemici. Con un pizzico di ironia senza la quale non è possibile sentirsi vivi. E senza dimenticare che se il nemico non conosce la nostra storia e le nostre paure, non ci accetterà mai».
Israele dallo scorso 13 giugno non ha più Netanyahu ma un governo-macedonia con dentro partiti di sinistra, di estrema destra, ebrei e arabi: «Una maggioranza risicata, fragile: voi sapete bene di cosa parlo… Difficile riuscire a prevedere cosa succederà. Di sicuro dopo Netanyahu abbiamo visto un cambio di atmosfera drammatico». E tratteggia l’ex primo ministro: «È stato un politico talentuoso, problematico, manipolatore, sorprendente, cinico. Uno che ha usato la gente: Macchiavelli avrebbe potuto andare a lezioni private da uno come lui. Ha forgiato Israele a sua immagine e somiglianza. Il suo comportamento non è mai stato chiaro, non ha rispettato gli accordi di Oslo, non ha mai tenuto conto delle promesse fatte, ha lavorato alla delegittimazione. Ma è stato il nostro volto per 15 anni, abbiamo qualche difficoltà a immaginare un futuro senza la sua faccia. La nuova coalizione ha determinato un cambiamento di stile, abbiamo più democrazia, più pluralismo, più onorabilità: non può che farmi piacere. È come se avessimo scoperto che il cibo che mangiamo è fatto anche da ingredienti nuovi che si chiamano accettazione dell’altro, possibilità di un pensiero diverso dal tuo perché chi la pensa diversamente da te non è per forza un traditore. Abbiamo, per la prima volta da 73 anni, un ministro israelo-palestinese: rappresenta un 20% della popolazione, quella che desidera integrarsi nella società israeliana, condividerne i valori, anche quelli di una fragile democrazia ma pur sempre migliore rispetto alla situazione che si vive nei paesi arabi vicini». Il progetto dei due Stati, datato 1993, è la sua soluzione: «L’unica possibile». E poi: «La pace non è solo un problema territoriale, è un processo verso la vita».
Il discorso scivola sull’importanza delle parole: «Gli arabi dovrebbero tutti imparare l’ebraico e gli israeliani l’arabo. Come ho fatto io, a 13/14 anni: attraverso la struttura della lingua ho compreso meglio le loro strutture mentali. Dobbiamo ascoltarci e narrarci, trovare una terra comune fertile». Racconta che prima della traduzione di ogni suo libro, incontra i traduttori e legge loro le pagine scritte: «Sì, perché trovino nella rispettiva lingua la melodia interna del mio testo, un’equivalenza armonica. Ogni lingua e ogni traduttore hanno una propria psicologia e una propria “temperatura” giusta per una frase».
Pensieri finali. L’Italia? «Mi sorprende sempre vedere la bellezza della vostra terra. Mi sento quasi a casa mia». La memoria è importante? «Io sono fatto dei miei ricordi»
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