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Taobuk 2021: il dialogo ci fa vivere e ci fa cambiare. Parola di David Grossman

Uno dei grandi protagonisti del Festival letterario che si apre oggi a Taormina. Lo scrittore israeliano, potentissima voce della narrativa contemporanea, riceverà sabato al Teatro Antico il Taobuk Award

Spera un futuro di pace e di felicità per Israele e Palestina, perché basterebbe «essere sintonizzati con la vita. Certo, se ci sarà sempre più gente ad ascoltare le parole di pace dello scrittore avremo più agenti di pace e forse nei secoli questa idea vincerà». Così dice nell’intervista rilasciata al nostro giornale, in collegamento da Israele, David Grossman, maestro dell’immaginazione, una delle voci più potenti della letteratura mondiale, con il suo lavoro di archeologia umana svolto quotidianamente attraverso la scrittura.

È proprio questa la sfida di Grossman, autore, tra gli altri, di “Vedi alla voce amore”, “Caduto fuori dal tempo”, “Il miele del leone. Il mito di Sansone”, “Il libro della grammatica interiore”, “Qualcuno con cui correre”, “Che tu sia per me il coltello” e “Col corpo capisco”, e, tra i più recenti, il romanzo “La vita gioca con me” (2019), la raccolta di saggi/discorsi “Sparare a una colomba” (2021) e il libro per bambini “Rughe. Storia di un nonno” (2021), questi ultimi tutti Mondadori.

Grossman sarà uno dei principali protagonisti di Taobuk 2021, attesissima edizione che si apre oggi a Taormina, dove lo scrittore riceverà sabato, al Teatro antico, il Taobuk Award 2021. Domenica converserà con Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, alle 20.30, sempre al Teatro antico, sul tema “Letteratura: l’archeologia umana”.

Dottor Grossman, nel suo ultimo libro con cui torna a rivolgersi ai ragazzi, lei è un nonno che dà conto al nipotino delle sue rughe. Cosa gli racconta?
«Racconto al nipotino ma anche alla nipotina come l’esperienza ci fa cambiare, come le esperienze traspaiono da quello che mostra un viso, che mostrano le cicatrici. E i bambini sembrano capire la quantità del tempo che passa, capire quello che racconta il nonno, che il tempo, l’esperienza, le cose dette e non dette, le cose belle e brutte nella vita ci cambiano, sia nell’animo che nell’aspetto».

Nei suoi romanzi lei mette in scena l’amore, il tempo, la guerra, la memoria, e i conflitti, di tutti i generi, pure quelli interiori e li fa esplodere, per cercare tutte le sfumature dell’umano. Qual è il filo rosso che nell’atlante di luoghi e sentimenti diversi tiene teso nei suoi romanzi?
«Credo che questo filo rosso sia il dialogo tra le persone, il dialogo che ci fa vivere e ci può cambiare come persone. È molto importante aiutare le persone con le storie, far capire che siamo creati dalle storie che ci raccontano gli altri, da come queste storie cambiano. Io penso che noi siamo imprigionati, siamo intrappolati dal sistema, dalle forme nelle quali siamo costretti, ed è importante vedere come da questa “trappola” attraverso le storie ci si possa poi liberare e cambiare. Importante che gli altri ci capiscano e che si crei un’empatia tra noi, tra me che scrivo e le persone con le loro storie».

Lo scorso settembre al festivaletteratura di Mantova, in collegamento dal suo Paese, ricordava che era presto per trovare le parole per raccontare una cosa talmente grossa come la pandemia che ci è piombata addosso. Mancheranno le parole, lei diceva, gli scrittori dovranno stare attenti a maneggiare questa materia. Lei come l’ha maneggiata? E c’è stata una pandemia di scrittura, forse pure di brutta scrittura, come lei temeva?
«Quando è scoppiata la pandemia in Israele, io sono stato veramente sopraffatto. La vicinanza con la morte, sia in Israele che in Italia, tutte quelle bare che passavano ci hanno dato un senso della fragilità dell’essere umano, di quante sovrastrutture ci possiamo creare e ci possano essere. Credo che la pandemia abbia messo veramente in evidenza la nostra sofferenza, tutti abbiamo sofferto, tutti abbiamo sentito questi sentimenti di paura, di idiosincrasia. Certamente il fatto di cercare queste mie ansie, di scrivere, di raccontare le cose con accuratezza, credo sia questo il compito di uno scrittore. Uno scrittore deve insistere proprio su questo, evitando tutti gli stereotipi, evitando la facilità con cui si scrive e con cui si possono affrontare i problemi. Quanto alla seconda domanda, penso che oggi ci sia una facilità enorme nello scrivere libri. Non c’è bisogno di editore, ci si mette al computer, si pensa di scrivere, e la storia è fatta. Anche se da questa iperproduzione può venire fuori qualcosa di buono, e a volte possiamo essere stupiti dal talento di qualche autore, devo dire però che molte cose sono irrilevanti. E se ne potrebbe fare a meno. La letteratura ci insegna che scrivere richiede tempo, analisi, studio e che dobbiamo stare lontani da tale facilità nello scrivere».

E la pandemia, se non ci ha reso migliori, ci ha aperto gli occhi? Ad esempio sulle disuguaglianze che si sono evidenziate, o siamo rimasti ciechi?
«Credo che con una pandemia ci sia la possibilità di cambiare, di vedere la vita com’è. Durante questo tempo e con le difficoltà vissute tutti si sono fatti delle domande difficili e scomode; la pandemia ha fatto registrare veramente tanti drammatici cambiamenti: le strutture sociali che vengono messe in dubbio per come sono, l’amore, la crisi delle coppie che magari pensano che il proprio matrimonio non è come doveva essere. Però c’è da chiedersi se la gente veramente vuole cambiare o solo, forse, vuole dimenticare quello che è stato prima e desidera saltare addosso alla vita».

La sua idea di letteratura coincide, si sa, con quella di un progetto esistenziale sul quale modellare la sua vita. In questo progetto il suo impegno di usare la parola per persuadere che la pace è un bene di tutti e che a tutti conviene la pace ha ottenuto dei risultati?
«Temo che pochi condividano questa idea di pace. In Israele la situazione è questa, sanno cosa è la pace, sanno cosa è la guerra. Purtroppo abbiamo una situazione molto difficile e vogliamo tutti che la realtà cambi, che ci siano speranze, ma il nostro destino pare sia quello, destinati a soffrire. Non abbiamo mai raggiunto un livello di disperazione come questo. C’è chi si sente sconfitto, e crede che non ci potrebbe essere un futuro. Siamo convinti da questa parte che sarà sempre così e che quindi dovremo essere sempre dei guerrieri, e anche se è triste questo pensiero, credo che ancora si continuerà ad esserlo. Ma speriamo. Molto probabilmente le cose, qui in Israele e in Palestina, ci potranno portare a chiedere come cambieranno le nostre vite, quali benefici possa portare la pace e vivere in pace nelle proprie case, noi nelle nostre, i palestinesi nelle loro. Certo, se ci sarà sempre più gente ad ascoltare queste parole di pace avremo più agenti di pace e non agenti di guerra e forse nei secoli questa idea vincerà. Fino a quando, però, non cambieremo e non ci convinceremo a che cosa ci porterà la felicità, che essa e la pace vuol dire anche essere sintonizzati con la vita, che il nostro destino non deve essere quello di vittime, solo allora potremo non subire il nostro destino ma formarlo. Certo è difficile con la situazione che viviamo. Però penso e voglio sperare che un giorno la gente si stancherà di questo uccidersi l’un l’altro. Forse è una fantasia? Non lo so. Ma quel che voglio dire è che con i fondamentalismi, con i fanatici che ci sono in giro, è difficile voler mettere in atto questo cambiamento. E ci vorrà tempo, però un giorno succederà, la gente si stancherà e vorrà cambiare».

Dottor Grossman, è contento di tornare a Taormina? E cosa è per lei Taormina?
«Le varie volte che sono stato a Taormina ho incontrato la gente più calorosa e più aperta. Sarà il colore del cielo, sarà il cibo, però veramente mi sono sentito e mi sento a casa. Da Taormina ho visto i tramonti più belli, e questo veramente mi appassiona, e mi rende felice di tornarci».

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