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Antonello da Messina pittore "divino" tra pathos e soavità, lirismo e fisicità

Cosa vede lo sguardo quando indugia su un dipinto di Antonello da Messina? Il soggetto, la consistenza vellutata del colore, la traslucida epidermide dei volti, il gioco straordinario della prospettiva, la fisicità sublimata, il lirismo dei paesaggi, il pathos degli Ecce Homo, la soavità delle Madonne, il sorriso enigmatico dei ritratti, la sublimità delle mani ritratte, i lussuosi dettagli? In realtà è il dipinto stesso, moltiplicatore di significati, che - come ricorda Jacques Lacan - doma lo sguardo e impone di ri-guardare.

Ma è la sorgente nascosta dell'autore, tutto messinese (Antonellus Messaneus era la firma vergata sui cartigli), eppure così italiano ed europeo e universale, che, nonostante la ricchissima bibliografia dell'universo antonelliano, esorta a chiedersi quando e come quella meteora (così lo definì Roberto Longhi) divenne genio della pittura, lui, nato in una Messina quattrocentesca che se era crocevia di traffici “internazionali”, e aveva una rete commerciale cosmopolita e un dinamico tessuto urbano, tra mercanti, patrizi, burgisi e artigiani, non era tuttavia organizzata in corporazioni di mestieri, né aveva qualificate scuole pittoriche, benché sicuramente dipinti e oggetti preziosi ornassero le case di patrizi e borghesi.

Rimane dunque il “mistero” Antonello, confermato da una recente pubblicazione edita da Pacini e curata da Stefano Renzoni (“Antonello da Messina”, pp. 269), per iniziativa del Gruppo Menarini, Industrie Farmaceutiche Riunite, che dal 1956 dedica ogni anno una monografia ai grandi maestri dell'arte (è di Menarini anche il progetto multimediale “Menarini Pills of Art”, brevi video, in varie lingue, che fanno viaggiare nella storia dei volumi d'arte dell'azienda, entrando nei musei più famosi).

Sono le opere e i giorni di Antonello, già narrati da grandi storici dell'arte, e ripercorsi nella recente mostra del 2019 che da Palazzo Abatellis di Palermo si è spostata al Palazzo Reale di Milano, anche se restano indimenticate quella del 2006 alle Scuderie del Quirinale, e, soprattutto, la grande manifestazione antonelliana del 1953 a Messina, a Palazzo Zanca, quando in tempi di “guerra fredda” si raccolsero per la prima volta i dipinti dell'artista messinese sparsi in Italia e nel mondo, seguita da quella altrettanto importante, sempre a Messina, organizzata dalla Regione Siciliana tra il 1981 e il 1982, in occasione del V centenario della morte di Antonello, mostra accompagnata da manifestazioni antonelliane e da importanti studi e pubblicazioni monografiche.

Né agiografico né mitografico il racconto di Renzoni in otto capitoli, che si muove tra indizi documentali vari, soprattutto percorrendo i luoghi nei quali il pittore visse e operò, giacché le notizie fornite dalla biografia di Vasari trattano piuttosto confusamente (specialmente dal punto di vista cronologico) le tappe fondamentali della vita di Antonello. L'autore dunque inizia dalla nascita del pittore, intorno al 1430, da Giovanni de Antonio, di mestiere maczone, cioè scalpellino o marmoraro, delineando sia l'ambiente familiare (il nonno Michele de Antonio capitano di mare, il fratello più giovane di nome Giordano, anche lui pittore, due sorelle, una delle quali sposata a un intagliatore e scultore in legno, Giovanni de Saliba o Resaliba col quale Antonello un giorno collaborerà) sia la realtà artigianale cui Giovanni de Antonio aveva introdotto i figli.

Ma dove imparò a dipingere Antonello da Messina? Pare che fino al 1925 non se ne sapesse molto, fino a quando, grazie a un documento, il mistero fu chiarito. Il ragazzo, forse sedicenne, aveva deciso di guardare oltre lo Stretto e di recarsi a Napoli presso il maestro Colantonio, dove il suo ingegno, cresciuto grazie alle sollecitazioni dell'ambiente (tra il 1438 e il 1458, con Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona, sensibili sia agli artisti fiamminghi, tra i quali Jan van Eyck e Rogier van der Weiden, che alla scuola ponentina e ai grandi maestri provenzali e spagnoli), è testimoniato dalla lettera in cui, nel 1524, l'umanista pontaniano Francesco Summonte ricordava al collezionista e patrizio veneziano Marcantonio Michiel lo spessore artistico del defunto Colantonio, superato tuttavia dal suo discepolo Antonello da Messina.

Che, mentre apprendeva la tecnica ad olio ed era affascinato dalla raffinata pittura fiamminga (nelle “Vite” di Vasari - ricorda Vittorio Sgarbi - si favoleggia di un incontro tra Antonello e Van Eyck, ma pare che Antonello fosse rimasto colpito da un dipinto di Van Eyck, venduto da un mercante toscano proprio a re Alfonso), si allontanava dal mimetismo stilistico del maestro e conduceva una sua ricerca spaziale, suggestionata certamente dal “classicismo” di Piero della Francesca. Terminata l'esperienza napoletana, Antonello ritorna a Messina: una data certa è il 1457, quando s'impegna a dipingere un gonfalone richiestogli dalla confraternita di San Michele di Reggio Calabria. Il pittore ormai è un maestro autonomo, ha la sua bottega dove lavorano anche il fratello Giordano e il calabrese Paolo di Ciacio, compra casa in contrada Sicofanti (accanto al Monastero di Montevergine) e dipinge per la committenza messinese.

Tra le incertezze cronologiche, altra data certa è il 1460, quando il pittore torna con la famiglia da un viaggio e il padre noleggia un brigantino per recarsi ad Amantea in Calabria e ricondurlo a Messina. E se gli anni dal 1465 al 1471 rappresentano dal punto di vista documentario un vuoto, dopo il 1471 lo ritroviamo, assai richiesto, in Sicilia, ma c'è Venezia che lo aspetta. Un soggiorno, tra il 1475 e il 1476, in cui il confronto con la cultura veneta e le suggestioni di Bellini e Mantegna arricchiscono il segno dell'artista nella continuità della ricerca prospettica, della plasticità monumentale e dello studio dell'umano, che attira l'interesse, tra gli altri, del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza.

Non si sa se il pittore si recasse effettivamente a Milano, ma è certo che nel 1477 Antonello è di ritorno a Messina, dove, ormai famoso, lasciava, prima di morire nel febbraio 1479, una buona cerchia familiare di discepoli e imitatori, tra i quali i nipoti Pietro e Antonello De Saliba, il cugino Salvo d'Antonio e Antonino Giuffrè. E, sopra tutti, il figlio Jacobello, erede della bottega alla morte del padre, e che con devozione poneva alla sua “Madonna Carrara” di Bergamo la firma «filius non humani pictoris», figlio del pittore non umano, ma divino.

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