Immaginate di poter mollare tutto, sciogliere gli ormeggi e salpare. Imbarcarvi su una goletta e lasciare a casa smartphone e notebook, far provviste per la cambusa, tracciando una rotta che attraversa il Mediterraneo, potendo contare solo sul vento, sul mare e sulla vostra voglia di libertà. Chi vorreste al vostro fianco in questo viaggio? Gli scrittori sono spesso misantropi - un po' per carattere, un po' per mestiere - e nel lontano 1934, con il desiderio di prendersi una pausa da tutto e al contempo riflettere su cosa sia davvero il Mediterraneo - restando spesso «con la penna a mezz'aria, in seria difficoltà» - Georges Simenon decise di prendere il mare. Un viaggio mica da ridere, da Porquerolles alla Tunisia passando dall'Elba, lambendo lo Stromboli, proseguendo per Messina, Siracusa e Malta, cercando nel rollio delle onde l'ispirazione per una serie di articoli che aveva già venduto, proprio per finanziare l'impresa. Del resto, il prolifico romanziere, l'autore de “L'uomo che guardava passare i treni”, “Tre camere a Manhattan”, nonché creatore dell'ispettore Jules Maigret, si era sbarazzato ben presto del timore della pagina bianca. A trent'anni dalla morte dell'autore belga, tradotto da Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio, Adelphi pubblica “Il Mediterraneo in barca”, un delizioso libro di viaggio in cui Simenon scrive cose che sembrano fotografare i nostri giorni: «Esistono persone che vengono fatte rimbalzare da una frontiera all'altra come palline da ping-pong […] il Mediterraneo è la gente che muore di fame alle pendici del Partenone e gli imbecilli che si suicidano a Montecarlo». Così scrive nel suo reportage originariamente pubblicato sul settimanale “Marianne” fra giugno e settembre del 1934. Trovarsi a divagare, penna in mano e in alto mare, è scontato ma Simenon affina lo sguardo cogliendo le prime scintille di quegli anni. La Seconda Guerra Mondiale era all'orizzonte, seppure non così prossima, e intanto il mondo già cominciava ad irrigidire le frontiere: «Sì, perché esistono persone che vengono fatte rimbalzare da una frontiera all'altra come palline da ping-pong. Non si sa di preciso quale sia la loro nazionalità. […] Viaggiano con pacchi ingombranti, materassi, pentolame, un canarino in gabbia e nidiate di marmocchi». Con la macchina fotografica al collo (nel testo ci sono 24 foto e vi rimandiamo alla lettura della nota a fine testo dell'editor Matteo) l'intento era quello di solcare il mare nostrum, da sempre crocevia di culture, in bilico «tra chi ha paura di aver fame e chi è abituato ad averla», per raggiungere la Sicilia partendo dall'Elba, senza nessuno scalo. Ma ovviamente qualcosa va storto, c'è un rischio di avvelenamento e per giorni interi non c'è traccia di vento. Così, quando finalmente appare all'orizzonte la Sicilia, l'emozione è palpabile: «Ah, Messina! Come sarebbe bello mangiare una cassata!». E giù a mangiar gelati, dopo aver passato lo Stretto. Simenon gioisce e pare di vederlo, con lo sguardo pronto a cogliere il mutare delle correnti e la penna a mezz'aria: «Da una parte c'è la Sicilia, con una città tutta bianca e l'Etna sullo sfondo del cielo. Dall'altra parte c'è la Calabria. Ma è soprattutto - ed è sempre stato - il confine tra due mondi. Fino a Messina siete più o meno a casa, e le cose hanno ancora il loro valore, le parole come la luce, i colori come i sentimenti. Oltre Messina, a dispetto della Grecia, è già un'altra cosa, è il Mediterraneo avanti Cristo, è l'Oriente, i popoli in marcia, le razze in pieno fermento. Immaginate adesso, all'ingresso dello Stretto, due correnti contrapposte, le famigerate correnti di Scilla e Cariddi, che creano turbolenze tali che il mare assume l'aspetto di un calderone». Dopo tanto penare, finalmente la ciurma sbarca per le vie di Messina, a caccia di donne e di prelibatezze. Bisogna riempire la pancia e placare tutti gli appetiti: «A quanto pare - scrive Simenon - qui sono i gelati più buoni del mondo. E allora ci precipitiamo. Ne mangiamo una, ne mangiamo due, tre, e la notte abbiamo tutti mal di pancia. L'indomani la sola vista di una pasticceria o di gente che mangia il gelato ai tavolini di un caffè ci dà la nausea». E poi, dichiarando rivolto al lettore di non voler raccontare la storia di Archimede e la sua impresa con gli specchi, Simenon scende lungo la costa con la sua goletta e approda a Siracusa dove nota subito «certi uomini, qua e là, con il naso rotto dei pugili o con la faccia segnata da cicatrici». Chi sono? Ovviamente gangster che durante il proibizionismo hanno fatto tremare «Chicago e l'America». E adesso mangiano dolci ai tavolini all'aperto. Siracusa turba i suoi sensi, tanto da definirla «l'immagine stessa della prosperità e della gioia di vivere». Una frase luminosa e potente che dovrebbe essere scritta sul municipio della città aretusea. A beneficio, soprattutto, di noi siciliani che spesso abbiamo bisogno di altri occhi per cogliere la bellezza selvaggia, crudele persino, della nostra isola.