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Greenaway al Taormina Film Festival: "Le mie storie sono un gioco di luci e ombre"

Greenaway con Casadonte e Bizio

«Le mie storie sono sempre un gioco di luci e ombre, come le mie idee». Così il regista gallese protagonista della quarta giornata del Taormina Film Fest definisce il suo stile da vero “demiurgo dell'immagine” che lo ha reso famoso come uno dei personaggi più complessi e influenti del panorama internazionale. Passato da artista, immagine e colore come vettore di comunicazione privilegiato, narrazione implicita lo hanno fatto dipingere talvolta come il regista della complessità e dell'indecifrabilità.

Ma, come ogni vero artista, Greenaway a Taormina - dove in serata al Teatro Antico ha ricevuto, da Kasia Smutniak, il Taormina Arte Award - sovverte il giudizio e stupisce per la su chiarezza assoluta, senza ombre, tanto nell'atteggiamento quanto nel modo di comunicare alla masterclass, in cui tocca gli argomenti più disparati e scottanti con la consapevolezza di andare “oltre il cinema”, ma rimanendo con i piedi ben saldi in una realtà di cui lui, onnivoro e grande sperimentatore, si è sempre dimostrato capace di cogliere e anticipare il cambiamento a dispetto dell'età (77 anni). Lui, che - racconterà al pubblico del Palacongressi - da ragazzino aveva vissuto l'ansia del cambiamento, superata grazie all'amore per la pittura, che lo aveva spinto «oltre il disagio» consentendogli di sviluppare una raffinata sensibilità da cineasta, con il pennello come riferimento costante, anche dopo l'approdo al cinema, ove cercherà sempre di ricreare la tavola del pittore.

Greenaway si concede a fotografi e giornalisti tv che lo assediano con sorrisi e grande schiettezza, la stessa della masteclass, moderata dalla co-direttrice artistica del Film Fest Silvia Bizio. Caustico, sincero e dotato di una profonda cultura , autore di opere come “Le cadute”, “I misteri del giardino di Compton House”, “I racconti del cuscino” e “8 donne e 1/2”, il regista ribadisce più volte nel suo discorso il legame tra pittura e cinema: «Caravaggio, Velasquez, Rubens, professionisti della luce artificiale, sono fonti d'ispirazione per i registi agli albori della settima arte». Ma a proposito delle sue fonti di ispirazioni punta alto, citando la massima: «Potrei rendere omaggio a grandi autori, ma noi possiamo solo stare sulle spalle dei giganti. Sono i giganti a fare il lavoro, ma se ci sediamo sulle loro spalle vediamo meglio di loro». E tra i giganti, lui, che si dichiara fortunato per aver potuto scrivere i suoi film, senza lavorare su copioni altrui, cita Shakespeare «l'unico sceneggiatore col quale abbia mai lavorato».

Nei fatti suo mito assoluto sul grande schermo è Sergej Eisenstein, cui ha dedicato il film del 2012 “Eisenstein in Messico”. Non possono mancare i riferimenti all'attualità. Per un regista che ha sempre trattato la morte e l'eros, oggi è più il tempo di morte che di eros. E a proposito di morte, il regista, notoriamente ateo, ha sottolineato come le recenti scoperte scientifiche testimonino quanto essa sia davvero la fine, andando contro l'idea dell'aldilà tipica di tutte le culture religiose. «E di ciò dovrebbero esser consapevoli tanto le persone che cinema e letteratura».

Prossimi progetti un film da girare a Lucca con Morgan Freeman in cui il legame tra eros e thanatos prenderà forma nel quesito se possa esistere davvero una morte felice. Poi una co-produzione collettiva tra Italia, Olanda e Inghilerra, realizzata da Annalisa Putortì, presente sul palco, assieme ad altri registi. Per l'Italia produce Ballandi Entertainment.

Interpellato da noi sul red carpet, ci ha svelato la sua predilezione per Bertolucci, Antonioni e soprattutto Fellini: «Aveva una intelligenza cinematografica esuberante che non è l'intelligenza letteraria,ma di come l'immagine e la scena possano funzionare assieme. Voi italiani lo avete sempre snobbato, lasciando che gli altri ne riconoscessero la grandezza prima di voi». Touché.

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