TAORMINA
«Tutti gli uomini diventano fratelli» scrisse Friedrich Schiller nel suo “Inno alla gioia”. Era il 1785 e quattro anni dopo la Rivoluzione francese avrebbe cominciato a dare sostanza a quell’ideale di fratellanza che però, ancora oggi, non si può dire pienamente realizzato. Ma quell’ode gode dell’immortalità tipica delle opere d’arte grazie soprattutto alla musica di Ludwig van Beethoven, che l’ha esaltata nella sua Nona sinfonia. È un’apoteosi del Romanticismo tedesco e quel sublime tema musicale è diventato l’Inno europeo, ma è anzitutto un patrimonio universale, un autentico evento della cultura globale.
Come dimostra l’esemplare figura di uno dei massimi direttori d’orchestra viventi, Zubin Mehta, l’81enne maestro indiano nato a Bombay, l’attuale Mumbai. Giunto alla soglia dei 60 anni della sua prestigiosa carriera (debuttò sul podio a Vienna nel 1958), Mehta è l’emblema di quanto sia necessario il binomio Schiller-Beethoven della Nona. La vita del maestro, infatti, è contrassegnata da lodevoli esempi di impegno civile e le sue prese di posizione sull’importanza della fratellanza tra i popoli sono coerenti e continue. Anche per questi motivi ha un ineffabile piacere nel dirigere (a memoria) il capolavoro di Beethoven in luoghi simbolici: il 3 giugno scorso nel Duomo di Milano con l’orchestra del San Carlo di Napoli e sabato scorso nel Teatro Antico di Taormina con l’orchestra e il coro del Teatro Massimo di Palermo, concerto inaugurale della rassegna “Anfiteatro Sicilia”, promossa dall’assessorato al Turismo della Regione Siciliana.
Già il coinvolgimento sociale e affratellante di Mehta basterebbe per rendere rimarchevole la sua presenza con la bacchetta in mano, però il maestro indiano è sopra ogni cosa un grande uomo di musica. E quindi, con tutto il rispetto per i versi di Schiller, è affascinante osservare la sua indagine interpretativa nell’universo sonoro beethoveniano. «O amici, non questi suoni!», intona infatti il basso nel quarto movimento della Nona: Beethoven introduce per la prima volta la voce in una sua sinfonia e le fa cantare parole scritte da lui stesso. Tre versi appena, che poi lasceranno del tutto spazio all’ode di Schiller, che esprimono letteralmente la titanica ansia di ricerca musicale del genio di Bonn.
Com’è storicamente noto, la genesi della Sinfonia n. 9 in re minore per soli, coro e orchestra Op. 125 fu complessa e affascinante. Beethoven, ormai sordo, la compose tra il 1822 e il 1824, e già da anni era ammirato dai versi di Schiller. La scintilla magica dell’estro grandioso ha portato il più grande dei compositori a cimentarsi con parole che esaltano la gioia e la fratellanza, proprio mentre la perdita dell’udito sarà stata per lui tutt’altro che gioiosa.
Fatto sta che l’itinerario tra i quattro movimenti della Nona, fino all’esplosione finale con il coro (innovazione assoluta in una sinfonia), rappresenta un chiarissimo percorso musicale, alla cui guida si pone Zubin Mehta con un gusto da assoluto affabulatore con la bacchetta in mano.
Si tratta di una “narrazione” (per usare un termine oggi tornato assai in voga) interamente musicale, che si svolge tra il pentagramma e l’autore, tra le varie sezioni orchestrali e che infine si sublima con l’ausilio delle parole, purché tuttavia adeguatamente cantate.
Mehta esplora con intelligenza e complicità la dinamica creativa beethoveniana. Sa già, ovviamente, che l’autore “gioca” con un proprio senso di “inadeguatezza”: l’intima drammaturgia sonora fa sì che Beethoven stesso appaia “insoddisfatto” dei temi creati per i primi tre movimenti della Nona. Al punto da porli, all’inizio del quarto movimento, quasi di fronte al giudizio del pentagramma stesso, che boccia “questi suoni” e vuole che se ne intonino altri «più piacevoli e gioiosi».
Mehta padroneggia da par suo la tecnica e il rito. Eccolo quindi accompagnare da gran cerimoniere gli ascoltatori e gli stessi orchestrali verso il tripudio conclusivo. Partendo dal primo movimento (Allegro ma non troppo, un poco maestoso), sempre suggestivo per l’apparente caos iniziale, una sorta di “big bang” nebuloso che sarà poi alla base dei maggiori autori tardo-romantici e decadenti assai cari a Mehta. Né sarà risolutivo (così ci vuol rappresentare Beethoven in persona) lo “scherzo” che insolitamente l’autore pone come secondo movimento (Molto vivace/Presto) col deflagrante protagonismo del suono del timpano che già – racconta la tradizione – sollecitò applausi a scena aperta durante la prima esecuzione della sinfonia e, più modernamente, fa da colonna sonora a una famosa sequenza di sole immagini in “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick.
Tanto impeto fa da preludio al soave terzo movimento (Adagio molto e cantabile) che Mehta fa gustare in tutto il suo incanto, pur nella consapevolezza che sarà seguito dall’esultante quarto movimento. E, all’inizio del terzo, il maestro fa accomodare sul palcoscenico i quattro solisti, per evitare soluzione di continuità con quella reale “sinfonia nella sinfonia” che è, appunto, il movimento conclusivo, un “presto” che è anche un allegro, una marcia, un prestissimo, insomma quanto di più maestoso sia stato composto per un’orchestra sinfonica. E per un coro, il cui intervento è, come detto, fortemente significativo per quanto viene espressivamente cantato, ma va a fondersi nei timbri e nelle armonie che conciliano con l’ascolto musicale, prima che testuale.
Mehta col suo gesto ampio e sicuro vuol partecipare all’esultanza, senza mai prevaricare gli esecutori. Ama dare il giusto peso alle sezioni orchestrali: fa sistemare i contrabbassi alla sua sinistra, dietro i violini, sottolineando la partitura che fa introdurre proprio a violoncelli e contrabbassi le celeberrime note dell’Inno alla gioia.
Mehta partecipa attivamente col coro, lasciandosi trascinare a cantare egli stesso i festosi versi schilleriani e si dedica con empatia a dirigere i solisti. Viene ben ripagato, perché l’orchestra del Teatro Massimo di Palermo dimostra una buona personalità, ben articolata nelle varie sezioni.
Il coro dello stesso Massimo (diretto da Piero Monti) convince pienamente per potenza e duttilità. E si fanno apprezzare i quattro solisti internazionali: il sicuro basso Wilhelm Schwinghammer, l’esperto tenore Michael Schade, il raffinato mezzosoprano Lilly Jørstad e in particolare l’efficace soprano Julianna Di Giacomo.
Alla fine gli applausi del numeroso pubblico si sono prolungati con convinzione per quasi dieci minuti; il maestro Mehta e i solisti hanno ringraziato più volte tornando in palcoscenico, ma non è stato concesso l’agognato bis: forse, citando Schiller, era «oltre il firmamento, sopra le stelle deve abitare!».
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