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Il MuMe, luogo della memoria riaccesa

Il MuMe, luogo della memoria riaccesa

Uno degli operai che hanno lavorato fino all’ultimo all’allestimento, al quale avevo chiesto dove si trovasse la direttrice, m’ha indicato una sala e m’ha detto: «È lì, da Alibrandi». Girolamo Alibrandi, il “Raffaello di Messina”, pittore amatissimo alla fine del Quattrocento. Come se parlasse d’un concittadino d’oggi. È la prima, estemporanea prova di cosa significa un Museo, quando funziona, e di cosa potrà essere il nuovissimo MuMe, il Museo Interdisciplinare Regionale che oggi per intero aprirà i suoi spazi alla città, in un mutuo abbraccio atteso da tanto tempo.
È destino di Messina, città caleidoscopio, scomporsi e ricomporsi: andò in pezzi – e non era la prima volta nella sua bimillenaria storia – quel 28 dicembre 1908. Ci vollero anni per ricucire il tessuto cittadino, lo spazio urbano e fisico e la trama affettiva e psichica della comunità: quello di oggi potrebbe esserne l’atto finale, un immenso rito di restituzione e riappropriazione, un esorcismo collettivo che dilegua i fantasmi e rimette il passato – lungo, ricco, carico di storie, idee, legami – nella giusta prospettiva.
Sorge di fronte allo Stretto, poco lontano da Cariddi, il MuMe: allunga i suoi 17mila e rotti metri quadri (la sede al coperto, su due piani, è di 4700) dove una volta sorgeva il monastero di S. Salvatore dei Greci: finora una piccola parte del suo immenso patrimonio d’opere (oltre 20mila tra dipinti, statue, libri, monete, manufatti) è stata ospitata nell’ex Filanda Mellinghoff, opificio ottocentesco scampato al terremoto e che da adesso sarà destinata a mostre ed eventi temporanei.
È la storia di Messina: il nuovo che sorge sull’antico, cambiandone forma, uso, destino. Il MuMe ha anche la forma che negli ultimi trent’anni gli hanno dato, con un impegno paziente, incessante, collettivo, tutti coloro che hanno lavorato – da quelle convulse giornate del 1908 in cui si operò per salvare e radunare le opere del Museo civico crollato, delle piazze, delle mille chiese distrutte – per arrivare alla giornata di oggi, tutti coloro che negli anni si sono posti il problema di cosa dovesse essere un Museo, per Messina, avvertendo il compito epocale di raccogliere spoglie ma per ridare loro vita. Un compito portato egregiamente a termine, oggi, dal direttore Caterina Di Giacomo, dall’architetto Gianfranco Anastasio, dai loro staff, da tutto il personale scientifico e tecnico.
È un viaggio, il MuMe, dentro le città che si sono succedute nel tempo: la città greca della ceramica e del marmo, dei vasi dalla forma perfetta, della dea Igea col serpente, la città romana di bronzo e di guerra, la città che parla greco e arabo, la città immersa nella luce di Antonello e la città che diventa quinta buia per le ossessioni e le ferite di Caravaggio, la città dei Santi e dei Senatori, la città sotto la mano gigantesca del Nettuno di Montorsoli, la città degli argentieri e dei copisti, la città delle Madonne e dei capitelli, la città degli scambi, al centro del Mediterraneo. Tutte hanno una voce, una forma, una lingua, e il grande, immenso lavoro dei tanti che hanno contribuito al MuMe è stato trovarle una per una, comporle in un coro e un percorso che fosse cronologico eppure concettuale, organizzarle nello spazio perché il loro dialogo fosse incessante. Percorrendo le sale – otto settori su due piani, dal Medioevo al primo Novecento, più la sezione archeologica – , attraverso il gigantesco gioco di pieni e vuoti, la modulazione dei volumi, la successione di scale, quinte, diaframmi e aperture (alcune sullo Stretto e la sua luce cangiante, alcune sui resti diroccati del monastero), pare quasi di sentirli, i secoli, bisbigliare, richiamarsi, incatenarsi secondo altri percorsi, altri legami.
Dicono che i luoghi morti siano quelli in cui non si può più «sentire nascere un’idea»: il MuMe è una semina d’idee, un fuoco incrociato di bellezza che continuamente si espande, si contamina. Dal settore dell’Ottocento un’apertura improvvisa ci presenta il bianco d’un marmo medievale; una terrazza s’affaccia di colpo sull’oro del Settecento; le città entrano l’una nell’altra, si parlano, ci parlano. L’ultima opera è del 1907, al di qua della catastrofe: lo sguardo corrucciato d’un autoritratto di Salvatore De Pasquale. Un’eredità.
Infine, due cose vanno dette, ai messinesi e alla politica. Ai messinesi un’esortazione: che facciano del Museo che ri-nasce il loro luogo elettivo, che rinsaldino – aiutati dall’immenso potenziale narrativo contenuto nelle sue sale, nel suo dispositivo di spazi e di memorie – il loro patto amoroso con un passato di splendore, e ne facciano vanto e progetto per il futuro. Ma anche per questo tutti assieme dobbiamo lanciare alla politica un monito: è facile, oggi, appropriarsi di questo storico momento, farne passerella e fanfara. Non tutti avrebbero titolo per farlo, tutti lo faranno. Ma queste sale splendide, questa perfetta «macchina urbana e sociale» da oggi avrà bisogno di cure: prosaicamente, lampadine da cambiare e vetri da lucidare (pare che la cifra corrisposta per la manutenzione annuale sia di duemila euro: quanto l’androne d’un condominio modesto), ma anche promozioni da sostenere. Tutto ciò merita un impegno – oscuro e silenzioso, senza le vetrine di questi giorni – vero. La città, l’Isola, la comunità – che non è solo quella messinese, perché ci piace pensare che il MuMe, realtà di valore assoluto e ormai d’importanza nazionale, sia da oggi possesso durevole di chiunque si senta cittadino della Repubblica della Bellezza – se lo aspettano, lo pretendono. Lo meritano, dopo tanto tempo. Non deludeteci.

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