Professore Gaetano Silvestri, lei diventò rettore dell’Università di Messina praticamente all’indomani dell’omicidio Bottari, ci può parlare del contesto e delle ripercussioni che inevitabilmente ebbe questo fatto per l’ateneo e la città?
«Io ho appreso dell’omicidio mentre mi trovavo a Palermo, in un convegno, e immediatamente ho percepito la gravità dell’accaduto e i problemi che questo fatto sanguinoso e criminale avrebbe scoperto, non creato, perché c’erano già. L’omicidio Bottari è stato, come dire, il detonatore di una situazione che si era accumulata negli anni e che aveva determinato una profonda e devastante infiltrazione mafiosa, nella specie ’ndranghetista, soprattutto proveniente dalla Calabria, con una propaggine anche a Messina, dentro l’università. Accanto a un corpo sostanzialmente sano purtroppo si era insediato un nucleo di violenza, intimidazione, prevaricazione e affarismo. E questo ha trovato il suo culmine in un efferato omicidio di un docente universitario, che quasi plasticamente era baricentrico tra il vecchio e il nuovo rettore, e quindi l’università veniva colpita al cuore. Io non avevo mai avuto intenzione di partecipare al governo accademico, dicevo sempre che a fare ricerca e a insegnare mi divertivo e per di più mi pagavano per divertirmi, quindi ero una persona fortunata. Tuttavia, dopo questo omicidio e dopo i tanti episodi sgradevoli, sgradevolissimi di violenza, intimidazione, minacce da parte di oscuri personaggi che si aggiravano per l’università, che la stampa anche nazionale riportava, mi sentivo chiedere nelle varie sedi universitarie dove andavo, “Ma che sta succedendo a Messina?”, e questo mi creava un forte disagio. Mi chiesi allora, anzi, chiesi alla mia coscienza, se potevo fare qualcosa, se potevo limitarmi a deprecare quello che era successo come fanno molti, che seduti in poltrona con il whisky in mano deprecano quello che succede, o quelli che invece, pur rischiando quantomeno di sporcarsi le mani, si buttano nella mischia e cercano di dare il loro contributo, piccolo o grande che sia, per affrontare i problemi che si pongono».
Quindi si candidò?
«Sì, ricordo che quando ufficializzai la mia candidatura per il rettorato vedevo questo timore nei colleghi, allora votavano solo i docenti, ma vedevo anche la speranza. Le faccio un solo esempio per capire: io allora abitavo nell’ex villa di Pugliatti, a Sant’Agata, bene, la sera ero costretto ad andare a letto tardi perché mi venivano a trovare, per darmi la loro solidarietà e assicurarmi il loro appoggio nel segreto dell’urna, tanti colleghi, e venivano la sera tardi per non farsi vedere, colleghi di cui ovviamente non dirò mai i nomi».
Si sorprese di questo fatto?
«Rimasi sorpreso, poi a un certo punto l’ho capito che c’era questa voglia di tanti colleghi di venire a dire che non ne potevano più, che volevano una svolta, che volevano liberarsi dal giogo delle intimidazioni, delle clientele, delle prevaricazioni, ma non osavano perché avevano paura. Poi c’erano pure quelli che tentavano di buttarsi sotto una nuova bandiera ma che venivano a chiedere favori, perché i vecchi vizi sono difficili da superare completamente. Ma alla fine, insomma, è stata una progressiva marcia trionfale, devo dire, inaspettata anche per me. Se devo essere sincero fino in fondo io non credevo molto che ci sarei riuscito. Sono stato minacciato, ma me ne sono infischiato e sono andato avanti».
Da quali ambienti provenivano?
«Mah, guardi, l’ambiente è sempre lo stesso. Vede, non ho mai ricevuto una minaccia nel senso stretto della parola, cioè di qualcuno che mi ha detto “O ti ritiri o ti ammazzo”, non me lo ha mai detto nessuno, oppure “Ti metto la bomba, ti sparo, ti faccio questo”, no. La minaccia spesso era benevola, qualche collega mi diceva “ma chi te lo fa fare?”, oppure “guarda che avrai delle pesanti conseguenze, stai attento, pensa alla tua famiglia”. Quindi erano minacce indirette, anche da chi mi voleva bene».
Aveva un antagonista che era il professore Controneo...
«Sì, che era una persona per bene, che alla fine si rese conto che aveva un suo seguito e si rese conto, da persona per bene, che molti di quelli che lo appoggiavano non erano persone per bene come lui, e come lei ricorderà a un certo punto si ritirò, e io rimasi candidato unico. Si ritirò perché si rifiutò di essere il rappresentante della parte peggiore».
Parliamo dell’omicidio, si è fatta un’idea del perché, della causale?
«Guardi, certamente l’omicidio è maturato in un sottosuolo oscuro che forse ancora esiste, ma che non è stato scoperchiato completamente. Dire esattamente qual è stata la finalità dell’omicidio non posso, non ce l’hanno fatta gli inquirenti che ce l’hanno messa tutta, devo dire che la magistratura ha fatto di tutto per trovare i colpevoli, sono state seguite alcune piste che poi sono risultate infruttuose o comunque incomplete. Ma certamente l’università di Messina, che era denominata la Fiat, si ricorda, era vista non come centro di sapere, di formazione, ma come dispensatrice di posti, prebende e sistemazioni, e come dispensatrice anche di appalti. Ecco, in questo mondo di accaparramento, di vantaggi, usiamo la parola “vantaggio”, deve essere maturato l’omicidio. È stato il messaggio, un messaggio terribile, un messaggio criminale, mandato a chi doveva capire. E io non ero fra quelli che dovevano capire, quindi non l’ho capito».
Secondo lei chi doveva capire ha capito?
«Se lo sapessi saprei chi è, e se sapessi chi è mi sarei già recato al Palazzo di giustizia a dire agli inquirenti i miei sospetti. Purtroppo non lo so se ha capito».
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