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Messina e l'omicidio Bottari, la procuratrice Raffa: «Un grande intreccio di rapporti opachi l’ostacolo maggiore» INTERVISTA ESCLUSIVA

La procuratrice aggiunta Rosa Raffa si occupò del caso per tre anni

L’attuale procuratrice aggiunta di Messina Rosa Raffa, quando era sostituta della Direzione distrettuale antimafia, si è occupata in prima persona dell’omicidio Bottari per tre anni di seguito, dal 2006 al 2009, cercando di dipanare un groviglio di tesi, causali, ipotesi, che purtroppo però è rimasto irrisolto. Proprio alla luce della sua esperienza diretta nella trattazione del caso le abbiamo fatto alcune domande per cercare di capire le ragioni di un tarlo giudiziario rimasto tale ancora oggi, a ventisette anni di distanza.

Perché è rimasto clamorosamente irrisolto l’omicidio del prof. Matteo Bottari, sono passati 27 anni e non c’è nulla, un fatto che pesa ancora oggi come un macigno sull’intera città. Ma esiste ancora un fascicolo in Procura su questa vicenda?
«L’omicidio del professore Bottari matura in un contesto ambientale caratterizzato da complessi rapporti personali, professionali ed affaristici, e in una difficilissima fase storica della vita della città».

Avete almeno contrassegnato con una ragionevole certezza l’ambiente in cui quell’omicidio eccellente è maturato? Considerando i primi accertamenti effettuati e gli ultimi in ordine di tempo, lo scenario è cambiato o no?
«Quei rapporti, talvolta opachi, risultavano così inestricabilmente connessi da rendere difficilissima l’individuazione di un elemento, di uno spunto che potesse indirizzare l’indagine o fondare una seria ipotesi investigativa. L’intreccio di quei rapporti ha costituito l’ostacolo fondamentale alla individuazione di un movente. Di volta in volta emersero causali, anche non gravi, talora contraddette da altri elementi, spesso sovrapponibili. D’altra parte, i colletti bianchi della città erano sfiancati dalle indagini sull’Università, la “Panta Rei”, dalle indagini sulla gestione della farmacia del Policlinico, erano risentiti dall’uso di quel terribile ed imbarazzante sostantivo, “verminaio”. Messina era identificata con la sua gloriosa ma ormai purulenta università, in cui si conglobavano illiceità e malaffare».

In quel contesto avete avuto la sensazione di essere praticamente “soli”?
«Posso dire di avere provato, nettissima, la sensazione che per la comunità cittadina riferibile ai settori di interesse del professore Bottari, le indagini costituissero un problema, un’attività in cui i magistrati dovevano essere lasciati soli ad occuparsene. Gli ambienti in cui operava e si muoveva il professore Bottari volevano prendere le distanze dalla vicenda, come se dall’approfondimento delle investigazioni potessero emergere conseguenze destabilizzanti per altri, consolidati, equilibri».
A parte qualche dichiarante, un soggetto che disse di aver visto qualcosa quella sera e un altro che raccontò tempo dopo di aver fornito il fucile per l’esecuzione, nessun pentito di mafia tra la Sicilia e la Calabria ha mai parlato di questa terribile esecuzione. Lei come se lo spiega? Nessuno sapeva? È possibile? Avete avuto mai riscontri validi su queste due testimonianze?
«La maggior parte dei soggetti ascoltati come persone informate dei fatti nel corso delle indagini si sono sforzate di fornire il minimo contributo possibile, talvolta malcelando un senso di insofferenza».

C’è stato almeno un momento in cui avete avuto la sensazione di avere afferrato una parziale verità, anche se non potevate provarla?
«In più occasioni si è avuto sentore di avvicinarsi ad elementi concreti, ma in nessuna occasione si è raggiunto un complesso di elementi indiziari che consentisse di sostenere adeguatamente una tesi».

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