Una vicenda giudiziaria complessa. Sullo sfondo un “giallo” lungo 35 anni, risolto con una sentenza di condanna emessa dalla Corte di assise bruzia (presidente Paola Lucente; giudice a latere Marco Bilotti) nei mesi scorsi nei confronti di Isabella Internò. La donna è stata ritenuta responsabile di concorso nell’omicidio dell’ex fidanzato, il calciatore del Cosenza Calcio, Donato (Denis) Bergamini.
Le motivazioni del provvedimento di condanna sono state depositate. Si tratta di un documento di 502 pagine firmato dalla presidente Lucente. «Donato Bergamini non si è suicidato. Vieppiù non lo ha fatto con le modalità riferite dall’imputata, unica fonte che ha sostenuto la versione dell’insano gesto. Tutte le risultanze acquisite, sia di generica, sia tecnico scientifiche, anche quelle emerse dai primi accertamenti, contraddicono inequivocabilmente questa ipotesi»: l’Assise è lapidaria nello smentire Internò. I giudici sono invece convinti che si sia trattato di un delitto. E spiegano: «Non v’è dubbio che il processo sia indiziario. Cionondimeno la prova indiziaria, in quanto prova critica, non ha una diversa e inferiore valenza rispetto alla prova diretta.
Nel giustificare il convincimento raggiunto al di là di ogni ragionevole dubbio circa la responsabilità dell’imputata si è operata una valutazione degli indizi a disposizione. In un primo momento» sottolineano i giudici « si è proceduto ad analizzare in modo parcellizzato i dati a disposizione, onde operare il vaglio di precisione e gravità rispetto ad ogni circostanza singolarmente considerata al fine di saggiarne il fondamento e la valenza dimostrativa. Di seguito, esclusi i contributi fuorvianti e gli eccessi narrativi presenti nell’odierno procedimento, si è proceduto a compiere un esame globale dei soli elementi affidabili, cercando di coglierne le interconnessioni mediante un procedimento in grado di misurarne l’effettiva valenza probatoria nel quadro giudiziario d’insieme. Tutti i molteplici elementi considerati, di sicura valenza indiziaria, convergono verso la responsabilità dell’imputata per l’omicidio dell’ex fidanzato». La Corte sostiene che fu Isabella Internò a svolgere il ruolo di trait d’union tra la vittima e i suoi aggressori inducendo Bergamini a incontrarla. «È certo che il povero calciatore sapesse di dover regolare i conti con la famiglia Internò, pur ignaro delle conseguenze fatali di quell’appuntamento e che non avesse avuto scelta, in quanto, evidentemente, obbligato a lasciare il cinema per un regolamento di conti o, nella sua ottica, per la risoluzione di un problema urgente». I togati si spingono oltre contestando alla donna addirittura la creazione di un falso alibi per la sera dell’ipotizzato omicidio. «Il dibattimento» scrivono «restituisce l’esistenza di un duplice alibi falso creato dall’imputata». La Corte in sentenza precisa: «Oltre alle menzogne ripetute per anni sulla dinamica della morte, la precostituzione dell’alibi falso da parte dell’imputata, si incrocia perfettamente con quella dei parenti Internò sulla presunta cena del sabato 18 novembre 1989 (la sera del decesso n.d.r.) e della zia sulla volontà - non ricambiata - di Denis di sposare la nipote, tesa a far vacillare la ritenuta causale del delitto». Una causale ad avviso dei togati legata all’interruzione di gravidanza fatta dalla imputata e al mancato matrimonio con il calciatore. Ciò ha indotto la Corte a ritenere la sussistenza nei confronti della donna della circostanza aggravante dei motivi abietti. «Affinchè essa operi» sostengono in sentenza «rileva solo la manifesta contrarietà del motivo ai valori culturali del sistema sociale di riferimento. Nel caso di specie è palese la contrarietà del motivo al nostro contesto culturale dell’epoca». Sulla esecuzione del crimine i magistrati sostengono che «le modalità dell’azione omicidiaria, mediante soffocamento con mezzo soft e successiva provocazione dell’arrotamento, hanno determinato, secondo il parere degli esperti, una morte rapida e quasi indolore: dunque non sono tali da cagionare alcuna sofferenza ultronea e gratuita». Questa ricostruzione esclude ad avviso dei giudicanti la contestazione dell’aggravante dell’aver agito con sevizie e crudeltà originariamente contestata a Internò. I giudici, pur riconoscendo alla donna le attenuanti generiche «per plurime ragioni di fatto e di diritto» sottolineano come sia emersa «una personalità incline al delitto: ella aveva certamente proceduto ad aborto clandestino ed illecito e aveva certamente commesso, in danno della vittima, una condotta oggi ascrivibile al reato di atti persecutori (all’epoca non in vigore). Una personalità formatasi» continuano «in un contesto familiare deviato da retrogradi principi morali, come si è potuto ricostruire. Ed è palese che il contesto di riferimento abbia influito sulla genesi criminogena, caratterizzando le condotte sotto una unica matrice: quella passionale».
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