
Le quattro organizzazioni “censite” - ha ricostruito l’indagine di giugno -, si erano ormai stabilizzate da anni a Messina, in alcuni quartieri “storici” da questo punto di vista come Giostra, S. Lucia sopra Contesse e villaggio Aldisio, e in provincia in particolare a Barcellona. Potevano disporre di grosse quantità di denaro e si rifornivano “diversificando” le fonti: con la Calabria, soprattutto a San Luca e Rosarno, per la cocaina; con alcuni fornitori attivi nelle province di Napoli e Milano, nonché con la Spagna, per l’hashish; e anche con altri nei Paesi Bassi per lo spice.
L’elenco dei reati nelle tre ordinanze di custodia cautelare, centinaia di pagine, che furono siglate dai gip Eugenio Fiorentino, Simona Finocchiaro e Monia De Francesco, fu lunghissimo. Vennero contestati a vario titolo i reati di associazione finalizzata al narcotraffico, detenzione, coltivazione, cessione e traffico di sostanze stupefacenti, autoriciclaggio e porto e detenzione di armi clandestine.
L’organizzazione di Messina - quella ricompresa nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui ci occupiamo nell’articolo, notificato agli indagati in questi giorni -, era uno dei quattro gruppi più attivi nel narcotraffico. La base operativa era nel quartiere di Giostra, dove grazie alle “case fortino”, con porte blindate, telecamere e vedette con i motorini, la droga arrivava e veniva custodita per poi rifornire le varie piazze dello spaccio sia in città che in provincia, lungo la zona tirrenica e quella nebroidea.
I guadagni dello spaccio a tappeto finivano in una cassa comune, e come nelle migliori tradizioni criminali dopo la quota per comprare la “roba” venivano diversificati, in parte reimpiegati per ripulirli in attività commerciale, per esempio nel settore dell’abbigliamento, e poi per mantenere le famiglie dei detenuti.
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